Ci sono dei conflitti di cui non si parla nelle cronache giornalistiche, di cui l’opinione pubblica non è adeguatamente informata e che per ragioni che tenteremo d’individuare non colgono appieno l’interesse della comunità internazionale. Conflitti dimenticati, si tende a chiamarli, e uno di questi divampa nello Yemen.
Nel mondo di oggi ce ne sono molti di conflitti invisibili, quasi fossero combattuti in una dimensione parallela del nostro pianeta, impercettibile e impalpabile, ma uno in particolare risalta per complessità e persistenza. Stiamo parlando dello Yemen, che sin dalla riunificazione, formalmente avvenuta nel 1990, non ha mai brillato per stabilità istituzionale. Tribalismo, settarismo, disintegrazione istituzionale, corruzione cronica, pirateria e terrorismo è quanto di meglio possa offrire oggi questo sfortunato paese sito nelle regioni sudoccidentali della Penisola Arabica.
Lo Yemen è uno stato sovrano solo de iure. La cartografia classica denota un’unità politica che nei fatti non esiste. Una mappa che tenesse in considerazione un più vasto e vario glossario del potere dovrebbe annoverare in legenda gruppi secessionisti, milizie private, organizzazioni terroristiche, eserciti stranieri e città costiere in mano a organizzazioni malavitose dedite ad attività piratesche. Metà del paese, quella orientale, è in mano alle forze governative del legittimo Presidente Abd Rabuh Mansur Hadi, mentre l’altra metà, affacciata sul Mar Rosso, è controllata da forze ribelli sciite di etnia Houthi, fedeli all’ex Presidente Ali Abdullah Saleh. A dividere le parti sono frazionamenti etnici, divergenze politiche, settarismo religioso, ragioni storiche e fortissimi interessi economici legati allo sfruttamento dei giacimenti petroliferi, peraltro in via di esaurimento.
Ma i problemi non finiscono qui. Gran parte della regione meridionale dell’Hadramawt è in mano alle milizie islamiste dell’Aqap (al-Qaeda nella Penisola Arabica), compresa al-Mukalla, importante città portuale affacciata sul Mar Arabico, recuperata dalle forze regolari soltanto lo scorso aprile. Inoltre, una filiale particolarmente violenta di Daesh (meglio conosciuto come Stato Islamico d’Iraq e del Levante: Isis) ha preso di mira dai primi mesi del 2015 alcuni quartieri di Sana’a, capitale del Paese controllata dai ribelli, portando a compimento una serie di attentati terroristici con autobombe, cinture esplosive e armamenti leggeri. Lo Yemen soffre poi di un annoso problema legato alla pirateria, solo parzialmente mitigato dall’operazione a guida NATO Ocean Shield, che vede impegnati trenta Paesi con circa cinquanta vascelli tra portaerei, incrociatori, fregate, sottomarini e navi ausiliarie.
Questa sostanziale disintegrazione istituzionale e territoriale del Paese – qui un nostro vecchio articolo che spiegava come è iniziata la guerra in Yemen – fa dello Yemen un cosiddetto “stato fallito”, sottoposto all’imperio di un regime giuridico che ha molto di anarchico e molto poco di organizzato. Stando alle classifiche stilate da Fund for Peace (Ffp) nell’annuale fragile state index, lo Yemen viene annoverato tra i cinque paesi più instabili del mondo, simile per gravità a Sudan, Somalia o Repubblica Centrafricana. Le valutazioni di Freedom House non delineano un quadro più roseo: si legge “Not Free” accanto al nome del Paese, segno evidente di come questo presenti indici di corruzione percepita e violazione delle libertà civili a dir poco sconcertanti.
Circa dieci dei ventiquattro milioni di abitanti che popolano lo Yemen soffre la fame e non ha accesso né a risorse idriche né a reti elettriche. Quasi l’80% della popolazione necessita di aiuto umanitario, ma il completo disfacimento istituzionale del Paese e la guerra in corso impediscono alle Ong di operare sul campo. Il 40% della popolazione yemenita non supera i quattordici anni di età, il che fa dello Yemen il Paese più giovane di tutta l’area mediorientale. Questo comporta di rimando un elevato tasso di sfruttamento minorile in ambito lavorativo e militare. Sia l’esercito regolare che gli insorti fanno affidamento su bambini soldato e la scolarizzazione delle nuove generazioni sfiora l’inesistenza.
I pochi capitali a disposizione vengono interamente destinati al sostentamento degli apparati militari e gli oltre cinque miliardi di aiuti internazionali allo sviluppo stanziati nel corso della Presidenza Hadi sono in gran parte finiti in mano ai ribelli Houthi dopo la conquista di Sana’a, impiegati per finanziare l’acquisto di armi leggere sul mercato nero. Le Nazioni Unite hanno recentemente promosso l’apertura di un vertice multilaterale nel Kuwait per favorire il dialogo politico, ma il tentativo non ha portato a nessun risultato tangibile.
È dunque facile comprendere il perché lo Yemen rappresenti agli occhi degli analisti un vero e proprio “incubo strategico”, dove nessuna soluzione politica pare poter reggere alla prova dei fatti. Le potenze occidentali non sono inclini a intervenire, né da sole né in coalizione. I soli che hanno inopinatamente tentato d’influenzare le sorti del conflitto sono i stati i sauditi, che da mesi bombardano le roccaforti dei ribelli sciiti provocando peraltro un elevato numero di vittime civili tra la popolazione, e gli iraniani, che sostengono i ribelli Houti.
L’ingerenza saudita deriva proprio dalla volontà di limitare l’ascendente sciita-iraniana nella Penisola Arabica, specie dopo la distensione dei rapporti con l’Occidente promossa dal Presidente iraniano Rohani. Si tratta dell’ennesima proxy war tra Arabia Saudita e Iran.
Questo ci riporta al quesito centrale. Perché non si parla dello Yemen nelle redazioni di giornale e nei gabinetti politici? Le ragioni sono molteplici, ma è possibile ipotizzarne un sommario elenco. Anzitutto, nessun esercito occidentale è impegnato sul territorio boots on the ground, il che determina un’attenzione ridotta da parte dell’opinione pubblica, tradizionalmente estranea ai conflitti altrui. In secondo luogo, protagonisti della scena sono principalmente i paesi del golfo Persico, riuniti in una coalizione a guida saudita, pertanto l’eco del conflitto al di fuori del mondo arabo è di minore intensità. In terzo luogo, l’attenzione generale è attualmente volta al conflitto siriano, nel quale s’intrecciano le sorti di una pletora di attori assai più vasta di quella impegnata nel conflitto yemenita, con conseguenze politico-diplomatiche molto più rilevanti per il futuro ordine geopolitico.
C’è poi da considerare che, eccetto Arabia Saudita e Iran,nessuno nutre interessi strategici nell’area. Le risorse energetiche del Paese sono scarse, prima del conflitto il Paese era il 32° esportatore globale di petrolio e il 16° di gas. Alle potenze occidentali è sufficiente proteggere le acque del Golfo di Aden e del Mar Arabico per evitare fastidi lungo le rotte commerciali che attraversano il Mar Rosso. L’intervento stesso dell’Arabia Saudita scoraggia altri dall’interferire.
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Più di diecimila yemeniti sono già stati uccisi dall’inizio del conflitto.
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Per farla breve, quello che accade nello Yemen resta perlopiù nello Yemen, per ragioni che spaziano dalla mancanza di interessi strategici nell’area alla scarsa commerciabilità delle notizie riguardanti il conflitto. I brevi, sporadici e risicati aggiornamenti offerti dal giornalismo sono appena sufficienti per poter crogiolarsi nella convinzione d’aver assolto al sacro dovere di cronaca.
Malgrado tutto questo, le ragioni per interessarsi dello Yemen vanno oltre la geopolitica, le dinamiche di potere o la commerciabilità delle notizie. C’è un fattore prettamente umanitario che deve essere considerato.
Più di diecimila yemeniti sono già stati uccisi dall’inizio del conflitto, la maggior parte dei quali civili colpiti dai bombardamenti sauditi. Altri milioni soffrono fame e povertà in condizioni di vita che sfiorano la bestialità. L’emergenza umanitaria – se non proprio catastrofe – è lampante. Inoltre, lo Yemen rappresenta un tesoro da preservare anche in termini architettonici e paesaggistici. L’Unesco conta in loco quattro siti nominati patrimonio dell’umanità e la campagna di bombardamenti perpetrata dall’Arabia Saudita rischia di radere al suolo un patrimonio architettonico lungamente osannato dall’archeologia.
In condizioni di stabilità istituzionale e sicurezza sociale, lo Yemen entrerebbe con facilità nella filiera del turismo internazionale, rivaleggiando con quei Paesi che oggi fungono da modello in tema, come Giordania, Marocco o Tunisia.
Per potersi salvare, Lo Yemen ha bisogno di un intervento esterno, militare oltre che diplomatico. Questo tuttavia non potrà avvenire prima che l’opinione pubblica mondiale si renda conto delle tragedie che affliggono questo piccolo Paese e chieda ai propri governanti – implicitamente o meno – di fare qualcosa in merito.
Francesco Balucani