Il primo giorno di dicembre hanno avuto luogo le elezioni presidenziali in Gambia. L’esito è stato sorprendente per due motivi: l’inaspettata vittoria del candidato dell’opposizione e la sobria ammissione di sconfitta da parte del Presidente, dittatore de facto dal 1994, che poi però ci ha ripensato.
Il Gambia è una delle nazioni africane meno estese: una striscia di terra che segue un tratto del fiume Gambia fino al mare, completamente circondata dal Senegal. Ha guadagnato l’indipendenza dal Regno Unito nel 1965 – un’isola anglofona in mezzo all’Africa Occidentale, francofona – ed è diventata una Repubblica presidenziale nel 1970. Il primo Presidente, Dawda Kairaba Jahwara, ha governato fino al 1994, resistendo a un primo colpo di Stato nel 1981, ma non al secondo, nel 1994, guidato dal colonnello Yahya A.J.J. Jammeh, divenuto quindi Presidente.
Negli ultimi vent’anni Jammeh ha vinto tutte le elezioni tenutesi dopo il colpo di stato del 1994, ed ha confermato un certo cliché del dittatore eccentrico africano: ha sostenuto di poter curare malattie con l’imposizione delle mani e di avere inventato cure miracolose. Si è poi convertito all’Islam e ha trasformato il Gambia in una Repubblica islamica.
Dal punto di vista internazionale, con Jammeh il Gambia s’è recentemente unito agli Stati africani desiderosi di abbandonare la giurisdizione della Corte Penale Internazionale (ovvero Sudan, Sud Africa, Kenya, Burundi), accusata di essere un organo “neocoloniale” molto più incline a colpire politici africani (che siano o meno dittatori o criminali di guerra), ignorando le del diritto internazionale compiute dai Paesi occidentali.
Jammeh alle ultime elezioni, sempre nel suo ruolo, ha eliminato molti oppositori, ha bloccato l’accesso a internet ed ha portato i militari nelle strade, creando un clima piuttosto teso. Ciò nonostante, le elezioni hanno avuto un esito inaspettato: non solo Jammeh non ha ottenuto le classiche percentuali plebiscitarie a suo favore, ma ha subito una vera e propria sconfitta contro il candidato dell’opposizione Adama Barrow, che è riuscito a radunare attorno a sé abbastanza forze per sconfiggere Jammeh. Ancora più inaspettatamente poi, quest’ultimo ha preso democraticamente atto della sconfitta.
Questa clamorosa inversione di marcia nel percorso di Jammeh non solo avrebbe aperto una nuova strada per il Gambia, ma avrebbe anche rimesso in discussione il fronte africano avverso alla Corte Penale Internazionale, e avrebbe fornito un esempio positivo ai numerosi colleghi dittatori presenti sul Continente, incoraggiando, forse, un’evoluzione democratica dei sistemi politici africani.
Si è trattato, però, di una breve illusione, durata meno di due settimane: Jammeh ha infatti ritrattato le proprie posizioni, affermando di avere acquisito informazioni tali da poter mettere in discussione i risultati elettorali. L’esercito si è dichiarato fedele al nuovo Presidente eletto, ma le milizie di etnia Jola – la stessa di Jammeh – si sono mostrate disposte a sostenere il vecchio Presidente, e la situazione si è fatta tesa. A complicare le cose ci si è messo il Senegal – grande vicino di casa con cui il Gambia tiene stretti e talvolta ambigui rapporti -, che ha mostrato la sua preoccupazione e il suo interesse a intervenire per “normalizzare” la situazione.
Inoltre, i leader dell’Organizzazione dei Paesi dell’Africa Occidentale (Ecowas) si sono mostrati preoccupati dell’evolversi della situazione nel paese, ed hanno chiesto al Presidente uscente Yahya Jammeh di ammettere, nuovamente, la vittoria del leader dell’opposizione Adama Barrow.
Anche l’Ecowas non ha escluso un’intervento militare, e attraverso la voce del Presidente della Liberia, Ellen Johnson Sirleaf, l’organizzazione ha chiesto “misure che portino questa situazione a soluzione prima del 19 gennaio”, giorno in cui dovrà avvenire il passaggio di consegne da Jammeh a Barrow.
Il futuro del Gambia resta incerto.
di Federico de Salvo