Il 2016 è stato un anno ricco di eventi per il Continente nero: circa 30 consultazioni elettorali (presidenziali e legislative) che, eccezione fatta per le legislative in Marocco e le regionali in Tunisia, si sono svolte tutte nell’Africa Sub-Sahariana. Vediamo di capire a che punto è il processo democratico africano.
Come avevamo anticipato, il 2016 avrebbe senza dubbio segnato il panorama politico africano. Non si erano mai viste così tante elezioni in un solo anno. Sono stati centinaia di milioni gli elettori coinvolti in tutta l’Africa chiamati a eleggere ben 16 Capi di Stato. Un buon indicatore democratico verrebbe da pensare, considerate anche le buone affluenze alle urne; peccato che una breve disamina dei fatti dimostra che la gran parte delle elezioni (soprattutto quelle presidenziali) si sono svolte in contesti dittatoriali.
Nonostante i buoni propositi e la speranze di vedere finalmente un’alternanza politica, in molti paesi la volontà popolare non è stata rispettata e nella maggior parte dei casi i risultati truccati hanno mantenuto lo status quo.
Il processo democratico in Africa iniziato negli anni Novanta fa ancora fatica a prendere forma, ed è come sempre caratterizzato da brogli, proteste popolari e violenze. Se le elezioni si diffondono, si moltiplicano anche le loro manipolazioni, oppure se ne ostacola l’attuazione dei risultati. La situazione è quanto meno paradossale se consideriamo che alla fine del 2016, la metà della popolazione africana ha partecipato ad almeno un’elezione presidenziale senza che i risultati siano stati tenuti in considerazione dai governanti.
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Secondo Afrobarometer metà degli africani non crede nelle elezioni.
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Quantitativamente dobbiamo riconoscere che gli africani non sono mai stati consultati tanto in così poco tempo, eppure i risultati pronunciati dai vari Ministeri degli Interni sono sempre meno affidabili, e come scrive Cnn citando una ricerca di Afrobarometer, “metà degli africani non crede nelle elezioni”.
Con il passare del tempo, i capi di Stato hanno imparato a gestire la “democrazia” a loro piacimento. In alcuni casi come Capo Verde, Benin, Ghana, osserviamo un alternanza politica avvenuta regolarmente senza colpi di scena, anche se non sono mancate violenze per le strade. Si sperava che altri seguissero questo esempio, tuttavia questo risultato non ha impedito in molti altri casi la messa in moto del solito meccanismo fatto di brogli, controllo totale dei mezzi di comunicazione e repressione brutale dell’opposizioni, che ha permesso a diversi leader uscenti di rivoltare le istituzioni per rimanere al potere.
L’unica nota positiva è stata caratterizzata dall’impegno della popolazione civile, che ha manifestato il suo dissenso di fronte al comportamento di certi leader, anche se questo non è servito ad invertire l’ordine storicamente consolidato.
Nel nostro articolo di apertura del 2016 avevamo scelto di analizzare i casi più eclatanti di Capi di Stato che nonostante la scadenza regolare di mandato avevano comunque scelto di ricandidarsi in barba ai vincoli costituzionali. Oggi come all’ora siamo di fronte allo stesso scenario: non solo si sono ripresentati, ma hanno anche vinto, ottenendo percentuali degne di regimi autocratici, eccezion fatta per Yahya Jammeh, presidente uscente del Gambia sconfitto alle elezioni dal leader dell’opposizione Adana Barrow, ma deciso a restare al potere.
Tra gli inamovibili ci sono Denis Sassou Nguesso, uomo forte da oltre 32 anni del Congo Brazzaville, e vincitore delle elezioni presidenziali lo scorso marzo con il 60% dei consensi, o ancora Teodoro Obiang Nguema, dal 1979 al comando della Guinea Equatoriale, rieletto lo scorso aprile con oltre il 93% dei voti.
Tuttavia, questi “elefanti d’Africa” sono in buona compagnia:
- Uganda, Yoweri Museveni al potere dal 1986, è stato rieletto a febbraio 2016 per un quinto mandato;
- Gibuti, il presidente Guelleh è stato rieletto con l’80% dei voti per il suo quarto mandato consecutivo;
- Ciad, Idriss Deby da oltre 25 anni al potere, rieletto per il quinto mandato nell’aprile 2016;
- Gabon, la dinastia Bongo sembra non avere limiti. Prima il padre e adesso il foglio rieletto per la seconda volta a settembre in un clima di guerra.
In questi giorni si sente molto parlare della Repubblica Democratica del Congo. Il Paese sta affrontando da oltre un anno una situazione di stallo politico. A mandato scaduto (20 dicembre), il presidente congolese Joseph Kabila è riuscito – come avevamo anticipato qui – a rinviare le elezioni a tempo indeterminato. Tuttavia, dopo settimane di violenze e in base agli accordi conclusi lo scorso 31 dicembre 2016, Kabila rimarrà ancora al potere presiedendo un Governo di transizione che avrà come Primo ministro il rivale Etienne Tshisekedi. Questo almeno fino al dicembre 2017, mese stabilito per le prossime elezioni presidenziali. Sembrerebbe che per la prima volta nella sua storia il Paese si prepari a vivere un’alternanza pacifica. Non possiamo prevedere il buon esito di questo accordo visto che nessuna delle parti lo ha ancora firmato.
Lo stesso documento vieterebbe la modifica della Costituzione, il che significherebbe, di fatto, l’esclusione dello stesso Kabila dalle prossime elezioni. Sono molti a credere in un colpo di scena finale. Nei giorni scorsi una quarantina di civili che manifestavano contro Kabila sono stati uccisi nel territorio di Beni, nel nord-est del Paese. In Congo non è stata dichiarata ufficialmente una guerra, ma le tensioni etniche sono sempre pronte ad esplodere. In questa parte del Paese, nell’arco di due anni, sono morte oltre 700 persone a causa delle violenze: lo stato di allerta in cui vive la popolazione civile è evidente. Si teme che il Paese – pieno di armi e devastato da due guerre civili tra il 1996 e il 2003 – precipiti nuovamente nella violenza.
Il Governo congolese e i Caschi Blu della missione Onu presente in tutto il Paese, si sono fino ad ora dimostrati dimostrano incapaci di proteggere la popolazione civili dagli scontri politici violenti.
Il bilancio continentale sulla salute della democrazia quindi non è dei migliori, soprattutto se consideriamo le numerose opportunità avute dall’Africa in questo ultimo anno. La situazione in alcuni paesi è costantemente in stallo. Per permettere ad un sistema multipartitico di svilupparsi liberamente in una democrazia servono determinate condizioni, quali la tutela della libertà di espressione, una magistratura indipendente, una volontà politica per mettere in moto un processo elettorale trasparente, una stampa libera e una società civile. Purtroppo in Africa molto di tutto questo ancora manca, e a pesare nelle scelte politiche sono ancora le questione etniche, spesso utilizzate in periodi elettorali per dividere la popolazione.
Nel 2017 ci terranno altre elezioni: si voterà in Sierra Leone, Liberia e Ruanda, tutti paesi con un presidente in scadenza di mandato. Non sappiamo quale piega prenderanno queste consultazioni elettorali, ma di certo sappiamo che l’attuale presidente del Ruanda ha modificato la clausola dei due mandati e ha annunciato la sua terza ricandidatura.
Certo, così illustrata la situazione nel continente non promette nulla di positivo, eppure si intravede uno spiraglio di luce se consideriamo alcuni cambiamenti positivi avvenuti in paesi come il Benin, che ha registrato dal 1990 ad oggi 7 elezioni democratiche e 3 alternanze pacifiche, o ancora in Burkina Faso, dove elezioni regolari hanno effettivamente rispettato la volontà popolare.
La strada è sicuramente lunga ma i regimi autocratici non sono più legittimati come un tempo. La storia recente dimostra che ormai nessun dittatore è immune alle contestazioni popolari. Grazie ad un opposizione più agguerrita e meno timida, la società civile composta in gran parte da una gioventù più preparata e avvezza all’utilizzo dei social network intacca, poco alla volta, gerarchie sino ad ora granitiche.
In conclusione, sarebbe opportuno ricordare una delle cause di questa precarietà della politica africana.
Le ripetute ingerenze straniere – specialmente da parte di paesi che possederono colonie – rappresentano un grosso ostacolo per il continente. Se gli interessi di un paese occidentale coincidono con quelli di un presidente africano, diventa difficile cambiare lo stato delle cose.
Un esempio su tutti: il quotidiano La Repubblica in uno suo articolo sottolineava come il colosso di comunicazioni e logistica Bolloré avesse ottenuto le concessioni dei porti in Guinea e in Togo grazie a dei favori che una delle sue aziende aveva fornito ai due presidenti in campagna elettorale. Elezioni che poi entrambi i presidenti hanno prontamente vinto.
In un altro articolo, le Monde descriveva come il gruppo Bolloré avesse transitato dei fondi libici per finanziare la campagna elettorale di Sarkozy nel 2007. Di fatto, l’azienda francese in contropartita ottenne le concessioni per la gestione del porto di Misurata. L’ex presidente francese ha spesso utilizzato il suo ruolo di Capo di Stato per fare pressione su certi dirigenti africani con lo scopo di far ottenere appalti a persone da lui indicate.
Certi governi africani dipendono tutt’ora da determinate decisioni prese addirittura fuori dal continente, e di conseguenza è difficile che possano autonomamente decidere della sorte del proprio Stato. Questo giova a tutti i dittatori africani, ma è altrettanto vero che se alcuni di questi non fossero stati corrotti o non avessero avuto la totale approvazione di certi governi occidentali forse oggi gli africani avrebbero avuto più possibilità di scegliere i loro leader.
L’Africa è pervasa da intrecci di interessi diversi che si legano a quelli di numerose potenze straniere. Il conflitto d’interessi in gioco va oltre l’espressione e la volontà popolare. È vero che relazioni internazionali e commerciali non hanno mai ostacolato lo sviluppo, né tanto meno il progresso di un paese, a meno che un attore non si metta a corrompere l’altro. Se l’anno appena passato si è concluso con un bilancio tutto sommato negativo, la speranza per il futuro sarà non tanto quella di augurarsi elezioni regolari e senza brogli e violenze, quanto un cambio di rotta: eliminare ogni forma di sudditanza dei governi africani dinanzi a certi poteri internazionali, i quali favoriscono determinati uomini di Stato che a loro volta creano i presupposti per la paralisi democratica dei propri paesi.
di Mohamed Ali Anouar