Nome in codice: Caesar – La mostra
Dopo essere state esposte alle Nazioni Unite a New York, al Museo dell’Olocausto di Washington, al Parlamento europeo e al MAXXI di Roma, Zeppelin e Celim hanno portato a Milano le immagini scioccanti che documentano i crimini contro l’umanità perpetrati dal regime siriano di Bashar al-Assad.
Affamati e torturati a morte: questo il destino di migliaia di civili e oppositori del regime di Damasco, documentato da altrettante foto che un disertore della Polizia militare ha trafugato prima di darsi alla fuga. Per saperne di più sul Caso Caesar: https://goo.gl/ByKOZZ
Autenticate da varie Commissioni d’inchiesta indipendenti, le foto hanno valore di prove per eventuali futuri processi per crimini di guerra e contro l’umanità.
La mostra è stata visitabile da giovedì 2 a mercoledì 8 Marzo 2017 presso l’Ex-Fornace Gola, Alzaia Naviglio Pavese, 16.
Agenda eventi
Coerentemente con l’obiettivo divulgativo dell’iniziativa, durante le giornate della mostra sono stati previsti una serie di eventi tematici.
[toggle title=”Venerdì 3 marzo. Evento inaugurale.”]
Come ha detto Fouad Rouehia, il giornalista italo-siriano che ha moderato l’inaugurazione, Mazen Alhummada il 3 marzo “ci ha donato un pezzo di vita”, non una mera testimonianza. Il suo pezzo di vita più doloroso, quello di un anno e sette mesi di torture nei centri di detenzione dei servizi segreti dell’Aeronautica militare siriana, i più famigerati per gli estremi metodi di tortura. Il suo volto scarno, le fattezze scheletriche, la schiena curva e le difficoltà a camminare per le sevizie ricevute lasciano intuire ciò che questo giovane siriano ha subito. Fuma due pacchetti di sigarette al giorno, mangia e dorme poco, ma nonostante l’inferno che ha sperimentato vuole continuare a vivere e raccontare la sua storia.
Mazen ha quasi 40 anni, viene da Deir ez Zor, una città petrolifera nel deserto orientale della Siria, oggi in parte in mano al regime siriano in parte a ISIS, dove lavorava per una compagnia petrolifera francese. Subì degli arresti già prima del conflitto a causa delle idee politiche della sua famiglia. Dal il 2011 fu arrestato tre volte perché partecipò alle manifestazioni di piazza che, dopo 45 anni di dittatura sotto il regime degli Assad, chiedevano uno Stato di diritto, democrazia, dignità, una Costituzione che preservasse i diritti di tutti i cittadini/e senza distinzione di comunità, etnia o religione. Sebbene ai primi due arresti subì violenze, il peggiore fu il terzo arresto, avvenuto nel 2012 quando fu sorpreso a trasportare latte in polvere per i civili di un sobborgo di Damasco sotto assedio da parte delle truppe governative. In macchina con sé aveva due nipoti, uno studente di ingegneria e uno di scienze sanitarie. “Di loro non sappiamo più nulla, sono nelle carceri di Assad ma non sappiamo se sono vivi o morti”, ricorda Mazen. Chiusi in un portabagagli, vennero portati in un centro di detenzione dei servizi segreti dell’Aeronautica militare dentro l’aeroporto militare di Al Mezzeh, a Damasco.
“Fin dal nostro arrivo siamo stati immediatamente picchiati, con i calci dei fucili, bastoni, calci e pugni che non hanno risparmiato alcuna parte del corpo, né il volto, né la testa né altro. Inizialmente mi hanno sdraiato per terra e hanno cominciato a picchiarmi, quattro energumeni mi sono saltati sopra, mi hanno rotto sia le costole anteriori che posteriori, hanno usato anche tubi, calci dei fucili [..]. Mi chiedevano di confessare qualcosa che non avevo fatto, [..] di ammettere di aver fatto uso di armi e questo per poter presentare dei rapporti alle Nazioni Unite che dimostrassero che non c’erano manifestazioni per la libertà e la dignità ma una rivolta armata”.
Mazen rifiutò di confessare il falso e le torture proseguirono:
“[Mi hanno] appeso per i polsi con delle manette. Venivamo appesi e issati a 40 cm da terra. Le manette tagliavano le carni, sembrava quasi che le mani si staccassero, perché tutto il peso gravava sui polsi. Se urlavi ti infilavano in bocca una scarpa e ti dicevano di non urlare e mordere. Poi hanno cominciato a pungermi con degli spuntoni metallici, a spegnermi le sigarette addosso”.
Fu ripetutamente bastonato alle gambe con ferri roventi, tortura che ancora oggi gli causa difficoltà nella deambulazione. Mazen resistette, perché sapeva che confessare, anche falsamente, il possesso di armi avrebbe comportato la pena di morte. Così i suoi aguzzini passarono alle torture sessuali e allo stupro:
“Mi hanno messo una specie di morsa attorno al pene e continuavano a stringere, a stringere, a stringere e sembrava che mi avessero evirato. Nel frattempo c’era uno dietro che mi sodomizzava con un oggetto metallico e mi diceva “Confessa! O continuo.”
Fu a questo punto che Mazen disse tutto quello che i suoi torturatori volevano sentirsi dire. Mazen ha raccontato che olte alle torture fisiche ci sono anche quelle dovute alle condizioni di detenzione, alla mancanza di cibo, di cure mediche, ma anche al sovraffollamento:
“Eravamo stipati talvolta in celle di 2m x 2m fino a 14, 15 persone. Altre volte in celle di 17m x 6m in cui infilavano fino a 170 persone e stavamo stretti gli uni contro gli altri. Nelle celle si diffondevano malattie di ogni genere, a partire da quelle cutanee, respiratorie, problemi igienici senza che ci fosse alcun tipo di assistenza medica”.
Ma l’orrore doveva ancora salire di livello. Ferito per le torture, Mazen fu trasferito nell’ospedale militare 601 del complesso di Mezzeh, quello dove sono state scattate le foto del caso Caesar. I detenuti lo chiamano “il mattatoio” perché chi viene portato lì, ci viene portato per morire. I detenuti lì vengono privati della loro identità e diventano numeri, cosa che rievoca la numerazione delle vittime dei campi di concentramento nazisti:
“Quando sono uscito di cella per andare in questo ospedale, mi hanno detto di dimenticarmi del mio nome e che da allora in poi sarei stato “1858”, un numero di quattro cifre come quelli che vedete sulle fronti dei cadaveri delle foto [di Caesar]. [..] Anche durante il tragitto dal carcere all’ospedale sono stato picchiato con i calci dei fucili e i tubi e mi dicevano “Muori dai! Portiamoci avanti, tanto ti portiamo a morire, muori!”.
L’ospedale 601 non è un vero ospedale, ma un altro centro di tortura, dove gli stessi medici e infermieri seviziano i pazienti che giungono dai centri di detenzione:
“Appena arrivato mi hanno incatenato a un lettino insieme ad altri tre pazienti; dopo un pò mi hanno portato una flebo ma in realtà era una flebo quasi vuota, appena un quarto, e non si sono preoccupati di cercare la vena, hanno infilato l’ago dove capitava. Ogni 12 ore ci consentivano di andare in bagno e anche il tragitto tra il lettino e il bagno era un corridoio pieno di persone che continuavano a picchiarci con i bastoni. Al bagno lo spettacolo era terribile: apri la porta e vedi cadaveri, ti giri e ne vedi altri, era un ammasso di cadaveri. In quel momento ho perso la testa, non ero più molto in grado di ragionare, quindi anche espletare i miei bisogni mi è stato impossibile. Mi sono tirato indietro e il secondino mi ha rispinto dentro e mi ha detto: “No, sei andato in bagno? Voglio vederti mentre fai pipì addosso ai cadaveri, perché stavolta tocca a te stare da questo lato, ma la prossima volta stai te dall’altro lato”.
Le umiliazioni e le torture fisiche si aggiungono a quelle psicologiche, come dover ascoltare le urla di persone torturate, dover trasportare i cadaveri e ammassarli in bagno, essere usati come scudi umani nel vicino aeroporto militare per scoraggiare gli attacchi dei ribelli o dover assistere alle esecuzioni dei compagni di cella:
“La prima notte, ricordo, verso mezzanotte, alcuni dei secondini arrivarono ubriachi. Evidentemente avevano ricevuto ordini dall’alto di liquidare alcuni dei prigionieri. Sono arrivati, hanno preso delle persone, io ricordo uno che era con me, si chiamava Ahmad [..]. Lo hanno ammanettato dietro la schiena, lo hanno fatto inginocchiare e hanno detto: “Il tribunale divino ha deciso per la pena di morte”. Poi hanno preso una mazza ferrata, che consisteva in un bastone che terminava con una sfera di metallo, e lo hanno colpito alla base del collo e sulla testa finché non è morto. Poi lo hanno preso e buttato nel bagno”.
Nel luglio 2013 Mazen fu trasferito in un’altra struttura detentiva per poi essere di nuovo trasferito nelle celle del tribunale militare dove fu giudicato e assolto per mancanza di prove. Alla fine del suo racconto, Mazen ha mostrato le foto di tre dei suoi cinque familiari ancora nell’inferno delle camere di tortura siriane: due fratelli e uno dei nipoti che era con lui al momento dell’arresto. È stato questo uno dei momenti più toccanti, quando al termine di questo terribile racconto il pubblico, ammutolito e commosso, si è alzato in piedi per rendergli omaggio con un lungo e sentito applauso. Condividere con altri un’esperienza tanto intima e atroce come la tortura è uno straordinario atto di coraggio e forza d’animo, ma anche di fiducia in chi ascolta. E quella sera ad ascoltare erano in tantissimi: circa 150 persone.
Perché ascoltare è doveroso e informarsi è un modo per difendersi, anche da quelle voci che, come ha sottolineato il giornalista siriano Shady Hamadi, “negano quanto avviene in Siria, negano le foto, il racconto di Mazen [..]. C’è questo negazionismo che era lo stesso che c’era allora con i campi di concentramento in Germania, che dicevano che andavano a farsi una vacanza. Ma la schiena curva di Mazen e le sue difficoltà a camminare sono prove evidenti”. È di fronte a questo negazionismo che il prof. Paolo Branca, nel suo intervento, ha citato Karl Kraus che, dopo la Prima guerra mondiale e di fronte a chi nonostante tali orrori parlava ancora, disse: “Signori, chi ha qualcosa da dire si faccia avanti, e taccia”. Perché davanti a certi orrori si dovrebbe tacere, fermarsi a riflettere prima di esprimersi.
Le parole di Mazen spaventano. Le foto di Caesar spaventano. Rievocano orrori che credevamo passati e ci richiamano alle nostre responsabilità. Come sottolineato da Danilo De Biasio, le foto non fermano la guerra, ma riescono a farla elaborare e a far capire cosa accade. Anche se non possono spiegare ogni aspetto del complesso conflitto siriano, “ci richiamano alle nostre responsabilità, non possiamo dire che non ci riguarda, ma dobbiamo fare tutto il possibile per prevenire queste atrocità”. Iniziando dall’ascoltare.
Infatti, come sottolinea Shady Hamadi, Mazen “rappresenta quella società civile siriana che non riusciamo a vedere e che si oppone sia al fondamentalismo sia alla dittatura che da 40 anni è in Siria”. C’è infatti una società civile siriana che vive sotto le bombe, nelle carceri, ma che rivendica ancora libertà e diritti. Ascoltare questa società civile ci pone di fronte alla nostra stessa Storia, segnata dagli orrori dell’Olocausto con cui le immagini della Siria hanno molto in comune. Secondo Shady Hamadi:
“La Siria ci pone di fronte a un grosso problema: che senso ha la Giornata della Memoria se il giorno dopo pratichiamo la Giornata dell’amnesia senza riuscire a identificarci nelle foto esposte, quando il racconto di persone come Mazen è come quello dei sopravvissuti alla Shoa? La Siria di oggi è l’immagine di quello che fu 70 anni fa. La nostra società se non vuole tornare a scegliere come 70 anni fa deve riconoscere senza se e senza ma la sofferenza dei siriani, non dobbiamo stare nè con Assad nè con il radicalismo, ma dobbiamo stare dalla parte dei siriani, per la loro scelta di emanciparsi da entrambi”.
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[toggle title=”Sabato 4 marzo. Proiezione del documentario “Eau argentée – Autoritratto siriano” (2014) di Ossama Mohammed”]
Un reportage del regista Ossama Mohammed – cineasta siriano esule a Parigi – con la collaborazione della regista Wiam Berdirxan, insieme alla casa cinematografica “Wanted”. Un’opera-collage sulla guerra civile in Siria, dove ogni giorno c’è chi filma e poi muore, mentre altri uccidono e poi filmano: “Se fossi qui, su cosa si fisserebbe la tua telecamera?”. La scintilla che ha dato il via al progetto è il video di un ragazzo arrestato e torturato dalle forze di sicurezza di Bashar al-Assad, poi postato dagli aguzzini su youtube. Ne è nata una testimonianza sul valore dell’immagine in movimento in tempo di guerra che, attraverso i video di mille e uno siriani, costringe lo spettatore ad osservare il conflitto e i suoi effetti da una prospettiva inedita, radicale e rivoluzionaria. Il documentario è stato presentato al Festival del Cinema di Cannes 2014, Toronto Film Festival 2014, Filmmaker Festival di Milano 2014, Festival dei Popoli di Firenze 2014, Torino Film Festival 2014. (scheda del film)
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[toggle title=”Martedì 7 marzo. Rappresentazione teatrale e presentazione del libro “La macchina della morte” (2016 – Rizzoli) – intevista con l’autrice Garance Le Caisne”]
“Mentre le guardavo, le fotografie mi parlavano. Molte delle vittime ritratte sapevano di andare incontro alla morte. [..] Hanno urlato il loro dolore perché qualcuno li salvasse, ma nessuno li ha salvati. Nessuno li ha ascoltati. Chiedevano qualcosa, ma nessuno li ha sentiti. [..] Queste vittime hanno gettato sulle mie spalle la responsabilità di mostrare le torture che sono state loro inflitte, davanti alle loro famiglie, all’umanità e al mondo libero. Ho lasciato la Siria con intenzioni pure, sincere. [..] C’è un detto che ci ricorda: «Un diritto non va perduto finché c’è qualcuno che continua a reclamarlo».“
Sono queste le parole di Ceasar che fanno da incipit a “La Macchina della morte. Siria: oltre il terrore islamico”, il libro-inchiesta sul caso Caesar di Garance Le Caisne, l’unica giornalista ad aver finora intervistato lo stesso Caesar, che il 7 marzo ha presentato il libro alla mostra. Il libro ricostruisce nel dettaglio la storia di Caesar.
Tra le domande rivolte alla Le Caisne, la più immediata è stata perché mai i cartellini con i numeri identificativi sui cadaveri sono oscurati nelle foto. “Per una questione di sicurezza.- ha spiegato la giornalista- Il regime sa che queste foto stanno girando per il mondo e non si vuole che i numeri facilitino l’identificazione dei cadaveri e permetta al regime di fare rappresaglie contro i familiari delle vittime. Ad oggi circa 800 persone hanno riconosciuti familiari tra le foto di Caesar ma molti hanno paura a dirlo. Una signora che ha riconosciuto suo marito tra le foto per poterlo comunicare al resto della famiglia in Francia ha dovuto utilizzare una SIM giordana per non farsi rintracciare dal regime”.
L’obiezione è però sorta spontanea: se il regime ha le foto in archivio e conosce l’identità dei detenuti, può comunque rintracciare le famiglie delle vittime. Tuttavia, dal momento che le foto che stanno girando per il mondo alla mostra sono 30 su un archivio di 55.000, il regime non ha confrontato tutte le foto per trovare quelle 30. Si tratterebbe di un lavoro mastodontico che, oscurando i cartellini, si vuole rendere più complicato. Le Caisne ha inoltre ricordato che il regime nega completamente il caso Caesar, per cui le foto sarebbero una macchinazione. Purtroppo però non è così.
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[toggle title=”Mercoledì 8 marzo. Dibattito sui diritti umani e diritti delle donne violati in Siria”]
In occasione dell’8 marzo, il panel ha coinvolto personalità femminili per affrontare i temi della Crisi siriana. Hanno partecipato alla giornata di chiusura Asmae Dachan, giornalista professionista freelance e scrittrice italo-siriana collaboratrice di Panorama, Il Fatto Quotidiano, Antimafia2000 e Tellus Folio; e Almudena Bernabeu, specializzata in diritti umani che ha presentato l’istanza presso la Audiencia National spagnola, co-fondatore e direttore della Guernica37 International Justice Chambers e direttore del Programma per la Giustizia di Transizione presso il Center for Justice and Accountability (CJA) fino al 2017, .
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L’iniziativa è stata organizzata da Zeppelin e CELIM, con la collaborazione di Amnesty International, FNSI (Federazione Nazionale Stampa Italiana), FOCSIV (Federazione Organismi Cristiani di Servizio Internazionale Volontario), Unimed (Unione delle Università del Mediterraneo), Un Ponte per…, e Articolo 21.