Il Jihad nelle Filippine è un universo jihadista decisamente variegato, dove il fondamentalismo religioso è spesso una maschera per obiettivi politici di altro tipo.
Il 27 febbraio 2017, SITE Intelligence Group – un’organizzazione che monitora le attività della galassia jihadista – ha diffuso un video girato dal gruppo terrorista filippino Abu Sayyaf (Asg).
Il filmato mostra la decapitazione di Jurgen Gustav Kartner, un cittadino tedesco di 70 anni, sequestrato a novembre dai terroristi, mentre si trovava nel Sud delle Filippine con sua moglie, uccisa durante il rapimento. Kartner è stato ucciso perché il termine ultimo per il pagamento del riscatto (circa 600mila dollari) era scaduto.
I miliziani di Abu Sayyaf non si sono mai fatti problemi a eliminare degli ostaggi: nel 2016, hanno decapitato due cittadini canadesi, John Ridsdel e Robert Hall, quando era ormai chiaro che nessuno avrebbe pagato per la loro liberazione.
Anche dopo la morte di Kartner, l’elenco delle persone rapite da Abu Sayyaf rimane importante: il Segretario alla difesa filippino, Delfin Lorenzana, ha stimato che gli ostaggi (stranieri e non) detenuti sul territorio dal gruppo terroristico potrebbero essere 31. Un numero che è sceso negli ultimi giorni: le Forze armate filippine (Afp) hanno liberato, in due occasioni diverse, i cinque cittadini malesi rapiti il 18 luglio 2016.
I riscatti rappresentano una delle principali fonti di guadagno dell’organizzazione, del resto, in una relazione confidenziale di Manila, visionata dall’Associated Press, si legge che Asg ha incassato dai rapimenti almeno 7,3 milioni di dollari solo nel primo semestre 2016.
Fondata ad inizio anni Novanta da Abdurajak Janjalani, un ex membro del gruppo separatista del Moro National Liberation Front, la formazione jihadista è sempre stata legata ad al-Qaeda (alcuni suoi membri avevano combattuto con la brigata islamica internazionale contro l’Unione sovietica in Afghanistan). Salvo poi giurare fedeltà a Isis (o Daesh) nel 2014.
L’obiettivo principale del gruppo è quello creare uno stato islamico indipendente nel sud delle Filippine. Attraverso la causa secessionista, Abu Sayyaf cerca di legittimare delle attività e una linea di condotta tipiche di un’impresa criminale.
La morte di Janjalani, ucciso nel 1998 dalla polizia filippina, ha cambiato molte cose. L’organizzazione non ha avuto più una leadership forte e ad oggi è composta da diverse fazioni, sparse nella parte occidentale dell’isola di Mindanao, che operano specialmente nell’arcipelago di Sulu, una delle regioni più povere delle Filippine.
A Mindanao, vive il 94% dei musulmani filippini (4,8 milioni di persone), secondo l’ultimo censimento del National Statistics Office (Nso) aggiornato al 2010.
La lotta internazionale contro il network di al-Qaeda ha privato Asg della sua principale fonte di finanziamento. Da attività collaterali, i rapimenti, le estorsioni e le rapine, sono diventate il core-business dell’organizzazione che, contrariamente ad altri casi simili, è molto chiusa. Entrare a farne parte infatti è quasi impossibile: i membri sono uniti da legami familiari e non fanno proselitismo al di fuori della propria cerchia.
Le ridotte dimensioni del gruppo – Manila stima che l’organizzazione dovrebbe contare tra le 200 e le 400 unità – e anche la giovane età dei membri – secondo il colonnello dell’esercito filippino Paolo Perez, intervistato da al-Jazeera, alcuni membri (perlopiù orfani di militanti) hanno solo 14 anni – non ne fanno una minaccia meno concreta.
Il Global Terrorism Database (Gdt) attribuisce ad Abu Sayyaf la paternità di 430 azioni condotte dal 1994 al dicembre del 2015 nelle Filippine – alcune anche molto gravi: il 27 febbraio 2004, ad esempio, il gruppo piazzò una bomba su un traghetto, uccidendo 116 persone, mentre nell’aprile 2000, Abu Sayyaf organizzò la sua prima azione internazionale, rapendo 21 persone da un resort nell’isola di Sipadan, in Malesia.
Quanto basta per inserire la lotta contro Asg nella lista delle priorità del Presidente filippino, Rodrigo Duterte, che ha una certa familiarità con l’estremismo islamico: dal 1998 al 2016, è stato il sindaco di Davao City, la città più importante di Mindanao.
L’8 luglio, parlando ai leader musulmani di Davao City, Duterte ha dichiarato di non voler considerare Abu Sayyaf alla stregua di un gruppo criminale: “Non mi sentirete dire mai sono dei criminali […] sono dei ragazzi – ha concluso – guidati dalla disperazione”. Tuttavia, a settembre, Duterte ha cambiato postura, promettendo una soluzione, per così dire, improbabile: “Vi mangerò vivi”, da annunciato, confermando i modi a cui il Presidente filippino ci ha abituato, soprattutto attraverso la sua personale “lotta alla droga”, fatta contro qualsiasi rispetto dei diritti umani.
Il Presidente filippino non si cura di rispettare né l’etichetta né, sostengono i report di diverse organizzazioni umanitarie, le regole principali di uno Stato di diritto.
Ai filippini, la situazione non sembra dispiacere, almeno per il momento: un sondaggio del Social Weather Stations, condotto a dicembre, rileva che l’81% del campione dice di avere “molta fiducia” in Duterte.
I terroristi di Abu Sayyaf hanno dimostrato di non curarsi troppo delle minacce presidenziali: il 30 giugno 2016, giorno dell’insediamento di Duterte, gli ostaggi rapiti dal gruppo erano “solo” 18.
In realtà, a partire dalla conclusione dell’US Joint Special Operations Task Force-Philippines (Jsotf-p) nel 2015, il terrorismo islamico filippino – non solo Abu Sayyaf, quindi – ha ripreso coraggio. Un esempio, scelto tra molti altri: il 2 settembre 2016, il Maute Group ha ucciso 15 persone e ferite 70, in un attentato a Davao City.
Un report della RAND Corporation sostiene che la cooperazione tra le forze armate statunitensi e filippine, iniziata nel 2002, ha contribuito a ridurre la minaccia jihadista nella regione.
Le Forze armate filippine assicurano che Abu Sayyaf rappresenterà una minaccia ancora per poco: parlando alla CNN Philippines, il responsabile degli Affari pubblici dell’Afp, il colonnello Edgar Arevalo, ha promesso che il gruppo sarà sconfitto entro il 30 giugno 2017. Nelle ultime settimane, sono stati uccisi 32 miliziani, oltre 20 sono stati feriti e circa 13 sono stati arrestati.
L’esercito di Manila non risparmia nessuno, in realtà: di recente, molti gruppi jihadisti filippini hanno subìto delle perdite nelle operazioni anti-terrorismo.
Tra le vittime potrebbe esserci anche il leader di Abu Sayyaf, Isnilon Hapilon. Il 3 aprile, Duterte ha ammesso di aver ordinato il bombardamento della sua casa, a gennaio. “Da quel giorno non abbiamo avuto più sue notizie, quindi suppongo che forse è veramente morto” […] “Ma questo è nel loro stile, spariscono e poi improvvisamente ricompaiono”, ha concluso.
L’esercito filippino non ha ancora confermato la morte di Hapilon.
Le fila delle formazioni jihadiste filippine potrebbero ingrossarsi, però: tanti sono i terroristi – un centinaio, secondo le stime del Soufan Group – che hanno deciso di raggiungere la Siria e l’Iraq e che adesso potrebbero tornare a casa, senza abbandonare le armi.
L’Institute for the Study of War sostiene che le Filippine rientrano nell’elenco dei Paesi dove lo Stato islamico intende stabilirsi, per poterlo destabilizzare (la lista include anche Iran, Arabia Saudita, Egitto, Turchia e una manciata di nazioni africane).
Quello filippino è un universo jihadista piuttosto variegato. Limes la descrive come “una galassia complessa e feudale, in cui il fascino del denaro conta più dell’ideologizzazione del movimento”.
Oltre ad Abu Sayyaf, l’elenco delle organizzazioni comprende il Moro National Liberation Front e altre piccole formazioni (Bangsamoro Islamic Freedom Fighters Special Operations Group, Bangsamoro Justice Movement, Khalifa Islamiyah Mindanao, Ansar al Khilafah…), ma attualmente, Abu Sayyaf, rappresenta una delle minacce principali alla sicurezza del Paese guidato da Rodrigo Duterte, che non dovrà limitarsi a reprimerlo con operazioni militari e di polizia (cosa che sta già facendo).
La soluzione passa anche attraverso il miglioramento delle condizioni economiche e sociali delle isole meridionali dell’arcipelago filippino. Così facendo, Manila potrebbe ridurre l’appeal della jihad sugli aspiranti terroristi, attratti più dai soldi (facili) che dall’islamismo politico.
La minaccia jihadista non è circoscritta al territorio filippino. Il dossier su Asg è anche sui tavoli di molti governi del sud est asiatico (tra gli ostaggi del gruppo, ci sono – o ci sono stati – cittadini vietnamiti, malesi, indonesiani). Questo rende Abu Sayyaf un problema internazionale che come tale va risolto, con la collaborazione di tutti. Nessuno escluso.
di Mirko Spadoni