La situazione siriana è un inferno. Capire cosa sta succedendo è doveroso in quanto esseri umani e indispensabile per la comprensione di quei fenomeni che travalicano i confini naturali di quella terra. Per questo motivo la nostra Rivista seguirà più da vicino la guerra siriana, che in realtà sono tante guerre diverse e sovrapposte, in modo da fornire un quadro sempre aggiornato e il più chiaro possibile.
Per Raqqa si apre una nuova fase piena di difficoltà politiche ed etniche. Quali sono le insidie di questa vittoria, perché la popolazione la accoglie con amarezza e qual è la geopolitica della ricostruzione?
La vittoria delle Forze Democratiche Siriane (SDF), guidate dall’YPG curdo, a Raqqa segna una svolta decisiva e a lungo attesa. Niente più esecuzioni pubbliche nelle piazze, lapidazioni, fustigazioni, “crocifissioni”, né bombardamenti.
Tuttavia i suoi cittadini hanno poco da festeggiare, perché non ci sono più nemmeno le piazze. Raqqa è una città fantasma, rasa al suolo da mesi di bombardamenti aerei della Coalizione internazionale a guida USA, spesso indiscriminati. I suoi civili hanno pagato un prezzo altissimo: quasi 2.000 morti, 450.000 sfollati, migliaia di feriti, centinaia di dispersi, anche sepolti sotto le macerie delle proprie case, secondo le stime del gruppo locale “Raqqa Is Being Slaughtered Silently” (RBSS), che è stato la “voce di Raqqa” contro l’ISIS in questi anni.
Il “prezzo della liberazione”, della conclusione di un dominio oscurantista e terrorista con cui si è fatto un passo avanti enorme verso la sua eradicazione e con cui si è aperto un canale per i tanto necessari aiuti umanitari (l’ONU ha già annunciato di essere pronto a inviarli, una volta sminata la città). Tuttavia, a ben guardare, si capisce che la sconfitta dell’ISIS è tutt’altro che la fine: al sollievo per la sua sconfitta, subentra la preoccupazione per quella che alcuni temono possa diventare una nuova occupazione.
Perché Raqqa è una città araba, mentre le forze che ne hanno preso il controllo sono quelle curde dell’YPG, che perseguono il dichiarato progetto politico di un Kurdistan per i curdi.
Indice di questa preoccupazione è stata l’esposizione, durante le celebrazioni della vittoria delle SDF nel centro di Raqqa, di una gigantografia di Ocalan, leader del PKK, gruppo considerato terrorista da Turchia, USA e UE e a cui è affiliato l’YPG. Un chiaro messaggio politico che non è piaciuto non solo a Turchia e Stati Uniti, che hanno condannato il gesto, ma nemmeno ai cittadini di Raqqa, che si sono visti sostituire i poster di al-Baghdadi con quelli di un altro leader straniero, di un gruppo ritenuto terrorista per di più. Ciò non fa che alimentare la diffidenza della popolazione, acuita dal fatto che l’YPG curdo intrattiene da tempo legami di cooperazione con la Russia e in alcuni casi con il regime di Assad (come nelle operazioni su Aleppo che hanno portato alla sua sanguinosa riconquista).
Le SDF hanno annunciato infatti che Raqqa farà parte di una regione autonoma (curda) all’interno di un più ampio sistema federale. Persino il regime siriano ha aperto alla possibilità di dialogo per un’autonomia regionale, che di fatto – anche se restasse entro i confini della Siria – concretizzerebbe un progetto di Kurdistan. Le SDF promettono di cedere l’amministrazione di Raqqa ad un consiglio civile formato da persone della città, forse consapevoli di essere una forza estranea al tessuto etnico e sociale di Raqqa e che quindi è necessaria una politica che eviti quelle tensioni etniche già registratesi altrove e aggravate da alcune violazioni dei diritti umani compiute dall’YPG nel corso delle loro campagne anti-ISIS.
Altro nodo cruciale è la ricostruzione. Il ministro per gli Affari del Golfo saudita, Thamer al-Sabhan, e l’inviato speciale USA, Brett McGurk, si sono già recati a Raqqa per incontrare i membri del Comitato di Ricostruzione cittadino e hanno promesso loro aiuto. Quello della ricostruzione è un classico strumento di esercizio del potere geopolitico, volto a ritagliarsi influenza sul territorio. Nelle aree sotto controllo governativo, ad esempio, il regime ha da tempo stipulato contratti milionari con compagnie russe e iraniane, che in questo modo estenderanno il loro potere sui territori governativi. La rapidità della visita dei funzionari sauditi e statunitensi indica la volontà di rafforzare la loro presenza nell’area, anche per controbilanciare l’espansione russa e iraniana nel Paese, nonché per stabilizzare i territori nella fase post-ISIS.
Una fase irta di insidie, perché la ricostruzione non è solo edilizia, ma soprattutto istituzionale e civile, e richiede grande consapevolezza del contesto locale e del vissuto della popolazione, che nel migliore dei mondi possibili dovrebbe essere l’attore principale. Sarà necessario infatti tener presente cosa era Raqqa prima di guadagnarsi l’infame epiteto di “capitale dello Stato Islamico”.
Nel marzo 2013 fu la prima città siriana a passare interamente nelle mani dell’opposizione e divenne uno dei primi esperimenti riusciti di autogoverno della società civile; ci furono le prime elezioni locali libere dopo oltre 40 anni di dittatura. Ma durò poco, non solo per i bombardamenti quotidiani dell’aviazione governativa, ma anche perché ISIS, giunto dall’Iraq, ne assunse il controllo nel gennaio 2014. Sebbene sia stata una pagina durata meno di un anno, ha fatto la Storia della città, che ha dimostrato di saper prosperare anche fuori dal controllo del regime di Damasco (e anzi proprio perché liberatasi dal giogo governativo). Ora che la città va ricostruita da zero, il timore di molti siriani è che i sacrifici della città possano essere vanificati. Come ha sottolineato Abdalaziz Alhamza, membro di RBSS:
La liberazione esiste nei media, non a Raqqa. [..] È vero che ISIS è stato sconfitto, ma il 90% della città è distrutta, ci sono macerie ovunque. In migliaia sono stati uccisi. Centinaia di migliaia vivono in condizioni miserabili, dormono nel deserto, sono fortunati se hanno una tenda. Quando dico alla gente che i media stanno celebrando la “liberazione di Raqqa”, restano turbati. [..] Dovete capire che non c’è nessuno a Raqqa che non ha perso un familiare, un amico, una persona cara. I luoghi della nostra vita passata non ci sono più”.
La fase di ricostruzione post-ISIS non potrà dunque prescindere dall’affrontare i traumi di una popolazione martoriata e necessiterà di una strategia a lungo termine, che non si limiti a prevenire i colpi di coda di cellule dell’ISIS, ma che comprenda che una sua sconfitta militare non equivale alla sua sconfitta ideologica. L’eredità lasciata da anni di indottrinamento, soprattutto dei bambini, di repressione e di bombardamenti lasciano ferite profonde nella popolazione, che resta vulnerabile. Occorrerà prevenire ulteriori processi di radicalizzazione che potrebbero sorgere qualora i problemi di Raqqa, dopo anni di distruzioni e crimini, non venissero risolti, e per farlo occorrerà anche prevenire le tensioni etniche tra una popolazione araba sotto un controllo curdo, favorendo la fiducia reciproca. Serviranno compromessi e azioni concrete che coinvolgano la sua società civile per far risorgere Raqqa e per far sì che sveli anche i suoi segreti, come ad esempio la sorte di padre Paolo dall’Oglio e di migliaia di dispersi.
Raqqa, per anni vestita del nero delle bandiere dell’ISIS, oggi è una città dove le macerie si tingono di bandiere colorate, ma che non sono quelle della rivoluzione siriana che sventolavano nel 2013 prima della venuta dell’ISIS e che erano l’espressione della rivolta popolare contro il regime, ma sono quelle gialle e verdi dell’YPG curdo. Bandiere segnale di speranza per Raqqa, ma che comunque, per storia, tradizioni ed etnia, non le appartengono.
di Samantha Falciatori