A Ciudad Bolivar, un quartiere situato nella periferia meridionale della città di Bogotà, per sopravvivere è necessario resistere.
A circa un’ora dal centro della capitale e con una popolazione di oltre un milione di abitanti, può essere definita come una città dentro la città che, al suo interno, racchiude quartieri come il Barrio Jerusalén che si sviluppa sul Cerro Potosí. Un barrio popular, sviluppatosi al di fuori di qualsiasi logica di pianificazione urbana principalmente attraverso la pratica dell’autocostruzione; una baraccopoli che si estende per diversi chilometri verso la montagna e verso Sud e raggiunge il centro minerario Soacha. La storia del quartiere risulta fortemente influenzata dal conflitto militare in Colombia; la sua fondazione infatti è dovuta all’arrivo di desplazados provenienti dalle regioni vicine a Bogotá (principalmente Tolima, Boyacá e Santander) agli inizi degli anni ’50. In quell’epoca, l’area di Ciudad Bolivar era ancora una zona rurale che sorgeva accanto alla cittá di Bogotá. Il quartiere vivrà un periodo di costante espansione demografica verso la montagna e con l’aggravarsi del conflitto in tutto il Paese, si ritroverà ad accogliere un sempre crescente flusso di desplazados.
Il quartiere storicamente non ha avuto vita facile. È stato spesso bersagliato dalle forze militari e paramilitari. A metà degli anni 80, è diventato un accampamento militare urbano delle forze dell’insorgenza (principalmente M-19 e F.A.R.C. ed E.L.N.). Nello stesso periodo fu uno dei principali obiettivi dei “sicariados“: una milizia di giovani sicari (ragazzi di età compresa tra i 14 e i 16 anni) che eseguirono per volontà delle forze governative, una serie di assassini mirati al fine di combattere il narcotraffico, ma in pratica, con l’obiettivo di sconfiggere ogni forma di dissenso politico, ampiamente diffuso nel quartiere. Il quartiere, infatti, nonostante le più disparate forme di repressione praticate, vanta una lunga storia di attivismo sociale e di resistenza. La prima grande mobilitazione fu nel 1985, quando alcune associazioni di madri occuparono con i propri figli il municipio per ottenere la costruzione di un asilo nel quartiere. Fino ad allora, infatti, l’intera Ciudad Bolivar era sprovvista di istituzioni scolastiche, ma anche di un trasporto pubblico che raggiungesse la capitale colombiana. Inoltre, nel 1993, fu teatro di un’importante protesta contro gli assassini politici: le vittime erano soprattutto giovani del quartiere, uccisi prevalentemente per la loro militanza politica. La contestazione culminò in uno “sciopero cívico locale”, che attraverso la mobilitazione cittadina riuscì ad esercitare pressione nei confronti del potere politico. Dopo pochi anni però nel 1997 il Governo e il Municipio di Bogotá collocarono all’interno del quartiere un’enorme discarica a cielo aperto che contribuì ad un ulteriore peggioramento della qualità della vita per i suoi abitanti che, per questo motivo, si spostarono in zone più prossime alla cima della montagna.
Fino alla metà degli anni ’80 il quartiere non era dotato di servizi pubblici (acqua, elettricità, fognatura). Fu grazie all’attivismo dei suoi abitanti, che si raggiunsero importanti conquiste, come l’allacciamento all’acqua e all’elettricità e la pavimentazione di alcune strade del quartiere (ancora oggi una minoranza).
La principale minaccia alla vita della comunità è costituita dallo sfruttamento del monte su cui si erge buona parte del quartiere: un’immensa miniera a cielo aperto, all’interno del perimetro urbano. Da venti giorni è in corso una protesta del quartiere che cerca di bloccare l’estrazione mineraria che prosegue incontrastata da molti anni, nonostante un divieto sancito dal decreto 12/2/1994.
Nel 1995 infatti, il Governo diede ad alcune imprese la concessione del “titolo minerario” e la “licenza ambientale” necessari per poter procedere, in maniera indisturbata, all’estrazione. Tuttavia, questa concessione mineraria, a livello teorico e formale, non riguarderebbe l’area di Ciudad Bolivar, bensí la vicina Soacha.
Ma fatta la regola, trovato l’inganno: le imprese che ottennero le concessioni minerarie, infatti, trovarono un facile escamotage espandendo l’area mineraria di Soacha ed includendo, anche i restanti 69 ettari appartenenti al “poligono” di Ciudad Bolivar.
La protesta è portata avanti dagli abitanti del quartiere che hanno eretto una rudimentale “barricata” per impedire l’accesso e l’uscita dei mezzi di trasporto e degli stessi minatori. È immediatamente sorto un conflitto con i lavoratori della miniera, membri anch’essi della comunità ed abitanti del quartiere. I toni dello scontro si sono inaspriti e molti degli attivisti presenti nell’accampamento dinanzi alla barricata sono stati minacciati dagli stessi minatori.
Sopra la barricata, in cima alla montagna, resta il simbolo della battaglia: “El palo del ahorcado”, ovvero il “Tronco del boia”, l’ultimo albero sopravvissuto al disboscamento praticato per molti anni ed ora minacciato dallo sfruttamento del territorio.
Il patrimonio dell’intera zona, il Paramo di Sumapaz, un ecosistema con un’immensa riserva di acqua dolce presente nel sottosuolo, è oggi minacciato dal crescente sfruttamento minerario del territorio (recenti ricerche hanno dimostrato anche la presenza di uranio), e aggravato dall’uso della dinamite e di sostanze tossiche necessarie per l’estrazione dei minerali. La salvaguardia del Paramo, secondo gli abitanti di Ciudad Bolivar, non è in alcun modo conciliabile con la persistenza dell’attività mineraria. La battaglia, a questo punto, è soprattutto legale (il decreto che proibisce l’estrazione mineraria si confronta con i “titoli minerari” le “licenze ambientali” concessi dallo stesso Governo alle imprese). A livello locale, le imprese sono La Esmeralda, La Estrella e Explotaciones Pachón. Le principali aziende multinazionali presenti sono Cemex, Holcim e la Fondazione San Antonio, che coinvolgono rispettivamente Messico, Svizzera e Stato Vaticano, e le loro attività minacciano seriamente il fiume Tunjuelo e l’intera area del Paramo.
Ad attrarmi da queste parti, oltre al recente conflitto per lo sfruttamento delle sue risorse minerali, vi è anche un’esperienza unica nel suo genere, un progetto pedagogico alternativo: l’Instituto Cerros del Sur (Ices), una scuola fondata nel 1982 nella zona del Cerro Potosí, la parte piú alta di Ciudad Bolivar, a circa 3.000 metri d’altezza. Un progetto di educazione popolare, un esempio di resistenza, una prova della dignità degli abitanti del quartiere che, nonostante la repressione perpetuata dai diversi governi che si sono succeduti, si sono spesi per la salvaguardia del territorio.
Il progetto è sorto grazie all’impegno degli abitanti del quartiere e degli stessi attivisti, oltre ad alcuni maestri, che hanno creato la scuola. A stupirmi, fin da subito, l’assenza di recinzioni, di guardie di sicurezza privata o di telecamere, la mancanza di un codice etico di comportamento all’interno dell’istituto; questo sembra piuttosto strano, soprattutto in un Paese ossessionato dalla sicurezza e, a maggior ragione, in uno dei quartieri considerati piú pericolosi di Bogotá. Inoltre, noto che, diversamente da tutti gli altri istituti scolastici che ho avuto modo di visitare qui in Colombia, gli studenti non indossano le uniformi. Tutto questo è pensato per far sì che non vi sia alcuna separazione tra la scuola ed il resto del quartiere. Parlando con Juan Carlos, uno dei professori del liceo ed abitante del quartiere, scopro ulteriori tratti caratteristici della scuola: l’attività didattica e la proposta pedagogica, oltre ai suoi contenuti tradizionali, si estende anche alla realtà politica e sociale del quartiere, promovendo nuove forme di organizzazione. Qualsiasi disciplina scolastica viene “ripensata” e messa al servizio del bene comune del quartiere. Per questo, ad esempio, l’insegnamento della chimica avviene attraverso degli studi legati alla stessa attività mineraria, un problema evidente per l’intera comunità, oltretutto visibile dalle finestre dell’intero complesso scolastico. L’attività didattica, pertanto, deve poter esser connessa alla realtà quotidiana degli studenti che vivono nel quartiere. All’interno del perimetro scolastico noto un orto creato dagli stessi studenti, con l’intento di ricreare uno spazio verde laddove intorno all’edificio e su tutta la montagna si pratica il disboscamento coatto.
Il progetto di educazione popolare mira infine a creare una particolare sinergia tra comunità e scuola, in grado di integrare in un’unica voce la contrarietà a tali progetti: nasce cosí l’idea di una scuola-comunità che mira a formare cittadini in grado di interpretare, in maniera critica, la realtà circostante e di comprendere le esigenze e le priorità della comunità stessa.
A giudicare dalla determinazione espressa dagli studenti nel corso della protesta contro l’attività estrattiva, il progetto educativo pare aver raggiunto in parte i suoi frutti: i ragazzi formati nella scuola del “Cerro Sur” mostrano una forte consapevolezza dei rischi ambientali nella zona circostante e, incarnando i valori della comunità, si dichiarano disposti a resistere. Per il momento, la barricata del Cerro Potosí regge, ma la battaglia per la salvaguardia del territorio sarà lunga e non priva di ostacoli anche perché la locomodora minera imposta dal Governo Santos, una política di sviluppo economico fortemente incentratata sullo sfruttamento delle risorse del sottosuolo colombiano, non ha ancora incontrato seri punti di arresto.