Come si rapina l’Africa, secondo i Panama Papers

Un impianto petrolifero di proprietà di Shell nel delta del Niger. La foto risale al 2001 ©Chris Hondros/Getty Images
Nel 2013 i paesi in via di sviluppo hanno perso oltre mille miliardi di dollari a causa di flussi finanziari illeciti. I documenti sottratti allo studio legale Mossack Fonseca – i così detti “Panama Papers” – spiegano come multinazionali e uomini d’affari hanno privato di decine di miliardi di dollari i Paesi africani.

Breve riassunto: i “Panama Papers” sono dei documenti trapelati da una delle più importanti società di consulenza finanziaria offshore al mondo – la Mossack Fonseca, con sede a Panama. Alcune rivelazioni al loro interno hanno iniziato ad essere pubblicate nell’aprile del 2016, a seguito di un leak ricevuto dal quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung. Su questi documenti hanno lavorato l’International Consortium of Investigative Journalists (Icij) e il Organized Crime and Corruption Reporting Project (Occrp), due importanti organizzazioni di giornalismo investigativo internazionale. Dentro ai Panama Papers c’è un po’ di tutto: corruzione, fondi neri, frodi, evasioni di tasse, che vedono coinvolte più di 140 personalità internazionali, tra cui il Presidente ucraino Poroshenko, principi sauditi, al-Assad, il primo ministro islandese, il calciatore Messi, il Presidente russo Putin, ma anche molte altre società e nomi sconosciuti, ma non per questo non rilevanti.

Quando sono stati pubblicate le prime inchieste sui Panama Papers – 11,5 milioni di documenti – in molti si sono domandati dove fosse la novità: è risaputo che somme enormi vengono nascoste in paradisi fiscali con l’aiuto di consulenti e avvocati compiacenti. Tuttavia, un conto è dire che lo sanno tutti, un altro è spiegare come, quando e chi ha compiuto illeciti.

icij.org
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Molti Stati africani non sono dotati di un sistema burocratico statale abbastanza forte per monitorare l’evasione fiscale e ostacolare con efficacia le frodi ai vari Ministeri, il che rende l’intero sistema tributario africano piuttosto fragile ed esposto a sottrazioni indebite. Ogni economia basata sulla sola esportazione di materie prime, inoltre, risulta dipendente dalla domanda estera e dalle fluttuazioni dei prezzi. Quei Paesi africani che basano la loro economia sulla sola produzione di commodity sono maggiormente esposti al rischio di mancati pagamenti da parte degli appaltatori e di ricatti finanziari che potrebbero influire sull’economia dell’intero Paese.

Secondo un rapporto del Global Financial Integrity, i Paesi in via di sviluppo nel 2013 hanno perso per colpa di flussi finanziari illeciti qualcosa come 1.090 miliardi di dollari. Secondo una stima dell’Onu, in tutto il continente africano almeno 50 miliardi all’anno vengono inghiottiti da flussi finanziari illeciti.

Un esempio è la Nigeria che, secondo Oxfam, perde ogni anno circa il 12 per cento del Pil in flussi finanziari illegali diretti verso l’estero. Tra gli ex clienti di Mossack Fonseca ci sono tre Ministri del petrolio della Nigeria e due ex governatori, tutti assistiti con servizi offshore per portare all’estero soldi che spetterebbero allo Stato nigeriano, ma che invece finiscono nel giro del riciclaggio. Un esempio è il caso di Diepreye Alamieyeseigha, oramai ex governatore dello Stato nigeriano Bayelsa (ricco di petrolio), che ha sottratto soldi pubblici poi usati, tramite società create dal giro di Mossack Fonseca, per comprare una casa nel Maryland e quattro immobili a Londra.

Ancora più clamorosa è la storia di Kolawole Aluko, imprenditore nigeriano accusato insieme ad altri tre suoi colleghi, di aver frodato al Governo nigeriano la bellezza di 1 miliardo e 800 milioni di euro di proventi di vendite petrolifere grazie all’assistenza dello studio panamense. Affarista legato al Ministro nigeriano del petrolio Alison-Madueke, Aluko e la sua Atlantic Energy si aggiudicarono nel 2011 le licenze per estrarre petrolio nel delta del fiume Niger, iniziando un’attività di esportazione all’estero molto redditizia.

Licenze estrattive nel delta del Niger (clicca per ingrandire) - credits: Wildcat International FZ-LLC / The Oil & Gas Year
Licenze estrattive nel delta del Niger (clicca per ingrandire) – credits: Wildcat International FZ-LLC / The Oil & Gas Year

Nel settembre 2014 la società fallisce e lascia un debito con il governo nigeriano di 1 miliardo e 300 milioni di dollari. Da quel momento il Governo tenta di recuperare i soldi scomparsi, con molte difficoltà, proprio grazie ai dirottamenti di denaro realizzati tramite società di comodo create con l’aiuto di Mossack Fonseca. Secondo la stampa nigeriana, le accuse contro Aluko per frode petrolifera si sono arenate a giugno di quest’anno in virtù dell’impossibilità di individuare la residenza dell’imputato per inviargli le notifiche legali, sebbene le indagini dell’Fbi, dell’Nca britannica e della Procura Generale Svizzera proseguano.

Lo studio panamense ha aiutato Aluko a creare società offshore di comodo, tra cui la Earnshaw Associates, di cui non ha saputo però fornire specifiche sui conti bancari o sui beni posseduti sotto richiesta delle autorità fiscali durante le indagini (nonostante i suoi avvocati avessero intestato alla società un jet privato poco tempo prima). Nel maggio di quest’anno la Corte suprema nigeriana ha sequestrato beni alle società di Aluko per circa 30 milioni di dollari, tra cui uno yacht di lusso e un appartamento a Manhattan. Il nuovo governo nigeriano insediato nel 2015, ha dichiarato che il debito per quote non pagate delle vendite di petrolio e il dirottamento di fondi su conti offshore è pari a circa un miliardo e 760 milioni di dollari. Una cifra che “è pari alla somma dei bilanci annuali di quattro Stati nigeriani, che con quei soldi avrebbero potuto mantenere 13 milioni di persone”.

Kola Aluko in una delle sue residenze - credits: Forbes.com
Kola Aluko in una delle sue residenze – credits: Forbes.com

Un altro stato africano vittima di enormi perdite dovute a truffe petrolifere è l’Algeria. Tra il 2004 e il 2013, l’Algeria ha perso in media un miliardo e mezzo di dollari all’anno a causa di evasione fiscale, corruzione e criminalità finanziaria. Nel 2005 il Paese aprì ufficialmente i bandi per le concessioni dei ricchi giacimenti petroliferi nel deserto, e, tra le numerose aziende estere che corsero per il ricco incarico, la spuntò l’italiana Saipem. Nello stesso periodo, l’affarista Farid Bedjaoui espandeva le sue attività nel mondo petrolifero e, secondo le accuse, tra il 1999 e il 2010 trasferì tangenti per 15 milioni di dollari al ministro algerino dell’energia, grazie a società di comodo create da Mossack Fonseca, tra Panama e le Isole Vergini.

Secondo alcuni testimoni, Bedjaoui era il trait d’union tra Saipem e Chekib Khelil – ai tempi Ministro dell’energia, oggi Presidente dell’Opec – ed avrebbe favorito un giro di tangenti da 275 milioni di dollari, usate per assegnare contratti dal valore di oltre 10 miliardi di dollari all’azienda italiana: si parla di oleodotti e gasdotti tra l’Algeria e il resto del Mediterraneo capaci di pompare 100.000 barili di greggio al giorno.

Un tribunale algerino ha condannato nel febbraio 2016 un’azienda consociata di Saipem per riciclaggio di denaro e corruzione. Le autorità italiane hanno incriminato Bedjaoui con l’accusa di aver gonfiato contratti a favore di alcuni dirigenti algerini, tenendo per sé una quota di circa il 3 per cento. L’ex presidente di Saipem per l’Algeria, Tullio Orsi, è stato condannato a 2 anni e 10 mesi, mentre Farid Bedjaoui è tuttora ricercato dall’Interpol su richiesta italiana.

Lo studio Mossack Fonseca deve invece spiegare cosa se n’è fatto di tutte le procedure internazionali di sicurezza finanziaria che ogni istituto dovrebbe rispettare per evitare che i propri clienti abbiano relazioni in conflitto d’interesse. I Panama Papers mostrano che lo studio legale panamense, non solo non adempì ai dovuti controlli sui clienti, ma che il suo core business era quello di offrire servizi deliberatamente finalizzati a rendere difficile per le autorità governative identificare i veri portatori d’interesse dietro le società offshore, comprese quelle che operano con  contratti sulle risorse naturali.

Oltre al mercato del petrolio, l’Africa è principale produttore mondiale di diamanti, e anche in questo settore i giornalisti dell’Icij hanno scovato frodi milionarie, come quella della miniera di Koidu. Nel 2003, dietro la modica cifra di 750 euro, Mossack Fonseca fonda alle Isole Vergini la società Koidu Limited, società fantasma posseduta (secondo le fonti) dalla Octea Mining Limited, controllata dal miliardario israeliano Ben Steinmetz. Oltre a rifornire le famose gioiellerie Tiffany in tutto il mondo, i diamanti provenienti dalla miniera di Koidu hanno generato parecchio scompiglio quando, nel 2015, la Sierra Leone ha minacciato di togliere la licenza estrattiva a fronte dei ritardi nel rimborso dei prestiti e dell’evasione delle tasse locali sulla proprietà. Il sindaco di Koidu ha fatto notare che la multinazionale non ha fatto nulla per la comunità e che la macchina più vicina per le radiografie (decisamente utile considerando i rischi del lavoro in miniera) è a 212 miglia di distanza.

Nel 2015 la comunità locale ha fatto causa alla holding proprietaria della Koidu, la Octea Limited, per un totale di 684mila dollari di imposte non pagate. Nell’aprile 2016, un giudice dell’Alta Corte della Sierra Leone ha prosciolto gli imputati dalle accuse, affermando che Koidu e Octea sono entità separate: non era possibile dire con sicurezza se Octea possedesse la miniera (grazie al giro di prestanome organizzato appositamente da Mossack Fonseca) e quindi non era tenuto al pagamento delle tasse dovute.

Cercatori di diamanti in un fiume nei pressi della miniera di Koidu - credits: Getty Images
Cercatori di diamanti in un fiume nei pressi della miniera di Koidu – credits: Getty Images

Che lo studio panamense non sia ligio al dovere quando si tratta di procedere a controlli sui propri clienti nel delicatissimo settore minerario – e in particolare diamantifero – lo dimostra anche il caso Figuereido. Elísio Figueiredo è un ex ambasciatore dell’Angola presso l’Onu, che nel 2013 chiese una mano al suo avvocato presso Mossack Fonseca per incassare 26 milioni di dollari ottenuti da una vendita di azioni di una società mineraria. Al momento di capire di chi fosse questa società che stava coprendo d’oro Figuereido, emerse che la stessa fu creata dalla Mossack Fonseca come fiduciaria senza, che si sapesse chi fosse il vero proprietario. Pungolati dalle autorità britanniche coinvolte in questo caso, i funzionari di Mossack Fonseca scoprirono che il proprietario di questa società era Dan Gertler, un mercante di diamanti sotto indagine per corruzione nella Repubblica Democratica del Congo.

Queste frodi sono estremamente difficili da smascherare e, una volta fatto, grazie a studi come Mossack Fonseca, perseguire i criminali e recuperare i fondi risulta impossibile. L’associazione tra una pratica eticamente oscena come la frode fiscale e un continente economicamente fragile come quello africano, dà vita a un meccanismo che si autoalimenta pericolosamente. È giusto condividere gli allarmi di Oxfam e altre Ong: non dipingere l’Africa come un continente prossimo allo sfascio, con immagini di bambini denutriti e una retorica allarmista che allontani gli investimenti esteri da una terra che negli ultimi decenni ha visto ridursi la mortalità infantile e progredire in modo significativo il suo apparato produttivo (in alcune zone di più, in altre di meno).

Tuttavia è parimenti giusto denunciare, anche grazie al lavoro straordinario dell’Icij e dell’Occrp, le pratiche criminali di frode fiscale in Paesi le cui dinamiche di sviluppo sono tanto complesse quanto fragili.