A seguito dell’intervento francese poco è cambiato: il Governo Israeliano guidato da Benjamin Netanyahu non è interessato a stabilire il dialogo, mentre il fronte Palestinese, che a parole si dice disposto, è in realtà troppo diviso per risultare credibile.
Il penultimo tentativo da parte della comunità internazionale di favorire la ripresa di un dialogo di pace tra Israele e Palestina era stato fatto nel 2014, sponsorizzato da un allora speranzoso ma presto disilluso John Kerry, Segretario agli esteri dell’Amministrazione Obama. Quel tentativo era collassato in pochi mesi in seguito all’accordo di pacificazione raggiunto dall’Autorità Palestinese (AP) di Mahmoud Abbas e dal partito di Hamas, che la comunità internazionale continua a considerare un gruppo terroristico.
Due anni dopo questo tentativo, è stata la Francia a proporsi come promotrice di un nuovo dialogo israelo-palestinese, ma ancora una volta la speranza ha lasciato il posto alla rassegnazione. Lo scorso fine settimana, infatti, in occasione della visita in Israele da parte dell’inviato dell’Eliseo Pierre Vemont, Netanyahu ha espresso il proprio netto e irrevocabile rifiuto nei confronti della proposta francese di ospitare a Parigi entro la fine dell’anno nuove sedute di dialogo e, tale rifiuto da parte del PM israeliano, sembra aver stroncato sul nascere l’iniziativa di Parigi.
Sullo sfondo di un quadro mediorientale sempre più scoraggiante – con Yemen e Siria condannati a guerre civili senza fine, e un Iraq su cui aleggia la minaccia del settarismo etnico-religioso – il no di Netanyahu diventa l’ultimo tassello in un mosaico generale di sconforto, e l’ultima prova di quanto ogni prospettiva di dialogo aperto, sincero e credibile all’interno dello scenario israelo-palestinese sia sempre più effimera.
In particolare, il rifiuto di Netanyahu rivela in modo innegabile e preoccupante come il governo israeliano sia dominato da una coalizione (di destra radicale) che nasconde il proprio estremismo dietro deboli giustificazioni e pretesti. Nonostante il governo israeliano abbia motivato la propria posizione rispetto alla proposta francese dicendosi aperto solo a iniziative di dialogo bilaterali che provengano dalla controparte palestinese, il rifiuto di Tel Aviv di fatto non è che una inequivocabile chiusura ad ogni possibilità di dialogo.
Il rifiuto a convenire a Parigi, infatti, non può essere visto come un incentivo a incoraggiare i Palestinesi a dialoghi diretti e bilaterali con Israele (nonostante la retorica del governo israeliano punti in questa direzione), ma solo come un rigetto di qualsiasi iniziativa che cerchi di porre le basi per una soluzione al conflitto che risponda alle domande del nazionalismo palestinese.
A controbilanciare il rifiuto di Netanyahu c’è stata invece la disponibilità da parte dei palestinesi di Fatah ad accogliere la proposta francese per un dialogo multilaterale favorito da parti terze.
Chiaramente, il sì di Abbas non basta a rendere il fronte palestinese un partner ideale per un dialogo complesso e spinoso come quello tra Tel Aviv e Ramallah. All’interno del quadro politico palestinese continuano a persistere profonde divisioni tra Autorità Palestinese e Hamas, e ciò solleva non pochi dubbi sulla capacità dei palestinesi di selezionare per il processo di dialogo figure in grado di essere sinceramente rappresentative dell’intera popolazione palestinese e di tutte le sfaccettature che ne compongono la complicata realtà politica e sociale.
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La proposta di Parigi ha contribuito a fare luce sulle difficoltà che continuano ad ostacolare il dialogo e sui conseguenti passi che la comunità internazionale dovrebbe prendere.
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Da questo punto di vista, per quanto riguarda il fronte israeliano, Stati Uniti e Unione europea dovrebbero usare le proprie leve diplomatiche ed economiche per indurre la destra israeliana alla guida del Paese a moderare la propria linea politica e la propria inclinazione radicale su questioni delicate come quella degli insediamenti israeliani nei territori occupati.
Per quanto riguarda invece il fronte palestinese, sarebbe necessario incoraggiare elezioni sinceramente inclusive – già rimandate per divisioni interne – capaci di dare al popolo palestinese quella voce univoca e legittima che è essenziale per la riuscita di qualsiasi dialogo.
Finché ciò non sarà fatto, il no israeliano resterà un ostacolo inamovibile e il sì palestinese un vuoto assenso.
di Marta Furlan