Il viaggio americano di Recep Tayyip Erdogan non è stato un successo. Sotto il profilo geopolitico le relazioni tra i due paesi sono in via di deterioramento, il grande Kurdistan si farà e gli Stati Uniti continueranno ad armare e sostenere i curdi siriani del YPG. Se si era recato a Washington per ricevere rassicurazioni circa la sua permanenza al potere non è dato sapere se queste siano arrivate. Certo è che il benvenuto del Washington Post, che martedì 17 Maggio ha pubblicato una lettera aperta di Fethullah Gülen in concomitanza al suo arrivo, non è stato caloroso. Nella missiva, il predicatore turco auto-esiliatosi in Pennsylvania nel 1999, chiede all’occidente di aiutare la Turchia – un paese che era il suo, ma che non riconosce più – a ritornare sul sentiero della democrazia. Inutile dire che Erdogan vorrebbe l’estradizione dell’ispiratore del golpe del 15 Giugno 2016, ma che questo non succederà.
Un vertice che sarebbe passato inosservato se non fosse per l’incidente avvenuto di fronte all’ambasciata turca a Washington dove alcuni contestatori curdi e armeni sono stati malmenati dalle guardie di sicurezza dell’entourage turco sotto gli occhi del Presidente stesso, che avrebbe assistito agli scontri. Sembra che tutto sia iniziato quando i manifestanti anti Erdogan si sono ritrovati vicini a un gruppo di sostenitori del Presidente turco. Le tensioni tra i due gruppi sono sfociate in un conflitto aperto. Da qui si aprono due versioni contrastanti sui fatti.
La prima, sostenuta dalla maggior parte dei media americani, indica come i bodyguard di Erdogan abbiano preso parte agli scontri attaccando i manifestanti. La seconda, sostenuta dalle autorità turche, sottolinea che le forze di sicurezza abbiano solamente cercato di mettere in sicurezza i cittadini turco-americani giunti a sostegno di Erdogan. Ankara dichiara inoltre che la manifestazione era “provocatoria” e che vedeva tra le sue fila diversi aderenti al PKK, accuse rigettate al mittente dagli organizzatori del corteo.
La questione curda ha oltrepassato gli oceani e ancora una volta motiva le reazioni clamorose di Erdogan riprese mediaticamente, come accaduto in occasione del referendum costituzionale quando il Presidente turco si è ritrovato di fronte al rifiuto di Olanda, Germania e Austria di ospitare conferenze organizzate da esponenti politici dell’AKP per convincere le comunità turche in quei paesi ad appoggiare la riforma.
La Turchia in merito agli scontri avvenuti di fronte all’ambasciata turca a Washington martedì 16 maggio non solo non ha accennato un minimo di scuse, o di giustificazioni, per le azioni compiute dalle sue forze di sicurezza, ma ha clamorosamente rilanciato presentando una protesta formale rivolta all’ambasciatore americano per aver consentito ai curdi di manifestare durante la visita di Erdogan, lamentando “l’aggressività” delle forze di polizia locali durante i fatti. Una mossa che serve perlopiù a gonfiare il petto di fronte alla propria opinione pubblica interna, ma che costituisce un ulteriore segnale per capire che i rapporti restano tesi tra Turchia e Stati Uniti anche sotto la Presidenza Trump.
Resta da chiedersi per quanto ancora Erdogan riuscirà a bluffare internamente sfruttando l’arena internazionale e, soprattutto, per quanto gli altri attori globali glielo lasceranno fare.
Di Mirko Annunziata e Eliza Ungaro