Cosa sappiamo dell’Eritrea, oltre al fatto di essere stata una delle poche colonie italiane in Africa sul finire del XIX secolo? Sappiamo poco e i racconti forniti da coloro che hanno lasciato il piccolo Paese del Corno d’Africa descrivono un regime che ha trasformato lo Stato in una prigione a cielo aperto. Come è strutturato il regime? Quale è il peso del suo esercito? Quali sono le relazioni con i suoi vicini?
L’Eritrea è uno dei pochi Paesi al mondo che potremmo definire oggi – regno eremita – per la sua quasi totale esclusione della scena regionale e internazionale. I suoi 120.000km² sono governati da uno dei regimi più rigidi al mondo. Lo Stato è onnipresente, molti servizi sono gratuiti per i cittadini, ma Issayas Afeworki – prima condottiero della resistenza e poi presidente – governa con autoritarismo, controllando la popolazione attraverso un sistema di monitoraggio e di oppressione continua e costringendo ogni mese circa 5000 persone a scegliere la via dell’esodo.
Eppure, quel 24 Maggio del 1991, quando i ribelli eritrei presero la capitale Asmara e cacciarono le ultime truppe del dittatore Menghistu Hailè Mariam (detto “Negus Rosso”), i presupposti erano diversi, e un prospero futuro sembrava profilarsi per il giovane Stato. Dopo oltre 30 anni di guerra di resistenza contro il “Negus Rosso”, il Paese provava a rinascere insieme a un popolo giovane, un’unione nazionale rafforzata, un sottosuolo ricco di risorse, spiagge e isole affacciate sul Mar Rosso per incoraggiare il turismo, i due porti di Assab e Mussawa all’uscita dello stretto di Bab-el-Mandab.
L’indipendenza è stata vissuta in un clima di euforia generale, ma scomparve ben presto, dato che Afeworki accentrò su di sé il potere, eliminando progressivamente ogni forma di libertà. Non è un caso se oggi l’Eritrea viene soprannominata la Corea del Nord dell’Africa per la sua politica totalitaria. Da eroe della liberazione, Afeworki si è a man mano trasformato in un despota assoluto che ha costruito il suo autoritarismo sulla supremazia dell’identità eritrea, non lesinando l’utilizzo di una forza militare ben armata. Il suo è l’unico partito del Paese, ed è al potere dal 1993: nessuna opposizione è tollerata, nessuna testata giornalistica indipendente, ONG quasi inesistenti e reiterati atteggiamenti bellicosi nei confronti dei suoi vicini.
Afeworki in questo clima di conflitto permanente – particolarmente dopo la guerra conclusa nel 2000 contro il nemico storico etiope – ha prolungato a tempo indeterminato il servizio militare e civile; quest’ultimo nella maggior parte dei casi, si traduce in lavori forzati a bassissimo costo per lo Stato. Un impegno logorante rivolto a uomini e donne tra i 17 e 40 anni. Questa forma di prigionia rimane oggi una delle principali cause di fuga del popolo anche se il governo minimizza parlando di migrazione a scopo economico.
Il Paese – tra i più poveri del mondo in una zona piuttosto delicata – è considerato un problema nella regione. Per via di una politica aggressiva, il Paese in meno di due decenni è entrato in conflitto con Gibuti, Yemen, Etiopia (nella guerra con quest’ultimo sono morte oltre 100.000 persone), arrivando a sostenere addirittura il gruppo islamista operante in Somalia al-Shabaab – a discapito del governo centrale somalo – armando le varie fazioni ribelli per destabilizzare i paesi della zona. Questo è valso all’Eritrea l’esclusione dall’Igad (L’Autorità intergovernativa per lo sviluppo) ed ha determinato l’isolamento regionale da qualsiasi piano di sviluppo politico, economico e sociale.
Anche a livello internazionale il governo di Asmara è isolato. Sotto embargo dal 2009, l’economia gira attorno allo sfruttamento delle riserve minerarie, a cui si aggiungono gli introiti della diaspora, che rimangono pur sempre significativi, considerado che quasi metà della popolazione vive all’estero: il Governo obbliga ogni cittadino eritreo nel mondo a pagare una tassa pari al 2% del reddito per aver accesso ai servizi consolari.
In passato l’Eritrea ha goduto del sostegno della Libia di Gheddafi – che forniva soldi, petrolio e armi – e ai finanziamenti del Qatar e dell’Egitto (quest’ultimo coinvolto da tempo in una difficile questione con il Governo di etiope inerente alla costruzione di una diga sul Nilo). Oggi però la situazione internazionale è un po’ cambiata: Gheddafi non c’è più, e anche se il Qatar continua timidamente a sostenere la dittatura di Afeworki, il Cairo ha troppi problemi per assecondare i capricci di Assayas.
Cina, Canada e Australia mantengono relazioni tutto sommato cordiali grazie alla loro presenza nel settore minerario, ma sono lontani dal sostenere apertamente l’Eritrea a livello internazionale. Da non sottovalutare il fatto che per lunghi anni il Paese è riuscito – e riesce tuttora – a rimanere a galla grazie all’appoggio di altri Stati filo inglesi, in un aria geografica prettamente dominata dagli Stati Uniti.
Lo Stato eritreo legittima la sua autorità grazie alle minacce del vicino etiope, che gli permettono di mantenere il Paese in uno “stato di emergenza” permanente, situazione tipica dei regimi totalitari. L’Etiopia non riconosce certi verdetti emessi dalla Corte Internazionale di Giustizia riguardo l’attribuzione di diverse aree all’Eritrea e continua quindi a rivendicare territori su tutta la linea frontaliera in un clima piuttosto teso tra le parti. Lo scorso 17 giungo, a Tserona, si è registrato l’ennesimo scontro, a testimoniare che uno scenario di guerra è possibile in qualsiasi momento.
Alcuni analisti politici prevedono la fine inesorabile del regime eritreo, e la causa sarebbe il suo isolamento. Il Paese non avrebbe le risorse finanziarie, tecnologiche e umane per sopravvivere a lungo in questo stato di cose. Ma è un declino che potrebbe durare a lungo dato che la situazione non sembra sul punto di cambiare, e la minaccia all’integrità del paese resta tutt’oggi un buon collante per l’unità nazionale. Gli eritrei, nonostante tutto, non accetterebbero di essere ancora un volta annessi all’Etiopia.
I possibili scenari
Difficile prevedere un cambio al vertice dello Stato in tempi rapidi, e questo per vari motivi. Attualmente la questione Eritrea non è considerata una priorità nelle diverse agende della comunità internazionale. È vero che la crisi migratoria verso l’Europa sta acquistando sempre più peso, ma ci sono situazioni più delicate e strategiche su cui il mondo si sta concentrando.
Forse un colpo di stato potrebbe essere una soluzione verosimile per cambiare l’attuale scenario politico e strutturare in seguito un nuovo assetto statale. Ci fu un tentato golpe, poi finito male, nel 2003, e non esiste nessuna figura o partito politico oltre il Fple (Fronte popolare per la democrazia e la giustizia), guidato dall’attuale Presidente. Difficile anche immaginare un “erede”, a meno che questo non venga presentato e istruito da una potenza estera, come spesso accade in Africa.
Infine, l’Eritrea non è immune a tensioni etnico confessionali, e se si considera che in Eritrea la popolazione è super armata e organizzata in milizie popolari, non sarebbe improbabile l’acuirsi di tensioni interne che potrebbero sfociare in una vera guerra civile, come accaduto in Somalia.
Mohamed Ali- Anouar