Le proteste iniziate l’anno scorso per fermare un piano urbanistico nella capitale si sono rapidamente trasformate in violenti scontri tra le forze di sicurezza governative e i diversi gruppi etnici del Paese.
Il momento del 6 agosto in cui un piccolo gruppo di manifestanti si è presentato a Meskel Square, la principale piazza di Addis Abeba, in Etiopia, è stato un momento storico perché, per la prima volta, le proteste nazionali sono arrivate nel cuore della capitale del Paese. I manifestanti protestavano per il diritto a partecipare alla vita politica del Paese, per un’equa distribuzione della terra, delle risorse e per la libertà di espressione. La risposta del governo, guidato da Haile Mariam Desalegn, non si è fatta attendere e, come già capitato in passato, è stata dura: oltre 90 persone sono state uccise delle forze di sicurezza.
Le contestazioni di Meskel Square sono state solo l’evento più significativo dell’ondata di proteste verificatesi il 6 e 7 agosto in oltre 200 città etiopi. La rabbia che si è scatenata in quei giorni è stata il punto più alto di una protesta che risale al novembre 2015, quando le autorità locali di Ginchi, piccola cittadina situata a 60 km da Addis Abeba, hanno requisito un terreno appartenente ad una scuola, per cederlo ad alcune società immobiliari desiderose di costruire nuovi edifici residenziali.
L’espropriazione di quel terreno, come di tanti altri limitrofi, rientrava nell’Addis Ababa Integrated Master Plan, progetto governativo per l’allargamento del territorio della capitale (che ha più di 4 milioni e mezzo di abitanti), a sfavore dei villaggi circostanti. Gli abitanti dei villaggi interessati dal progetto sono soprattutto Oromo, il principale gruppo etnico del paese. Gli Oromo, a seguito di quella decisione, scesero in piazza per protestare: le forze di polizia, anche in quel caso, agirono con brutalità e secondo Human Rights Watch circa 400 persone rimasero uccise, tra cui molti studenti al di sotto dei 18 anni. Gli effetti di quelle proteste sono arrivate anche ai Giochi olimpici di Rio, quando il maratoneta medaglia d’argento etiope Feyisa Lilesa, al termine della gara del 21 agosto, ha incrociato le mani simulando il gesto delle manette per denunciare la repressione in atto nel Paese nei confronti della popolazione Oromo.
La rinuncia del governo al progetto non è stata sufficiente a calmare gli animi della popolazione che ha continuato a protestare, fino alla marcia di Meskel Square. Tali contestazioni sono figlie di una rivendicazione più generale della componente Oromo della società etiopica. Questo gruppo etnico rappresenta il 34% della popolazione ma non possiede un’adeguata rappresentazione nelle istituzioni politiche del Paese, dove a spadroneggiare, invece, sono i Tigray, gruppo etnico cui appartiene soltanto il 6% della popolazione. Le proteste degli Oromo hanno visto anche l’insolita partecipazione degli Amhara – il secondo gruppo etnico del Paese di solito in conflitto con gli Oromo – che rappresenta oltre il 26% della popolazione.
Tra le città maggiormente colpite dalla repressione statale c’è proprio le città di Bahir Dar, dove nei due giorni di protesta la polizia ha ucciso 27 persone. L’Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front (EPRDF), partito dominato proprio dalla componente Tigray, governa il paese da circa 25 anni, lasciando pochissimo spazio a qualsivoglia rappresentante dell’opposizione. Nell’ultima tornata elettorale l’EPRDF ha ottenuto tutti i seggi nei parlamenti federali e regionali, con nessun membro dell’opposizione eletto, rendendo così impossibile ogni tipo di critica nei confronti del governo. In aggiunta, il governo lancia periodicamente campagne di arresto di giornalisti indipendenti e politici (due leader delle opposizioni sono stati arrestati a inizio settembre), favorendo l’interdizione delle organizzazioni non governative.
Da quando ha assunto la guida del Paese, la componente Tigray ha sempre cercato di estromettere gli Oromo ed gli Amhara dalla vita politica etiope, etichettando le loro richieste di maggior partecipazione alla cosa pubblica come la principale minaccia all’integrità del Paese, cercando di aizzare il confronto tra i due gruppi etnici maggioritari per ergersi ad unico tutore e mediatore.
L’Unione Europea, con una dichiarazione del suo Servizio Esterno (EEAS), ha condannato il ricorso alla violenza degli schieramenti in campo, sollecitando la ricerca di una soluzione pacifica maggiormente inclusiva. Il basso profilo mostrato dalla comunità internazionale nella vicenda scaturisce dal fatto che l’Etiopia, in virtù anche delle ottime performance economiche dell’ultimo decennio, è considerata uno dei pochi punti di riferimento della diplomazia occidentale, in un’area tormentata dalla conflittualità perenne oltre che dalle difficili condizioni ambientali.
L’Etiopia, inoltre, partecipa con circa 8.300 soldati nelle otto missioni a guida congiunta Onu – Unione Africana, nonché con ulteriori 4.395 nella missione AMISOM dispiegata in Somalia impegnata nel contrasto alla minaccia terroristica di al-Shabaab.
di Danilo Giordano