Le esternalità derivanti dal cambiamento climatico avranno un impatto forte e durevole sullo scenario geopolitico internazionale. Comprenderne le origini e prevederne i costi è conditio sine qua non per superare quello che gli psicologi chiamano “sconto iperbolico”, ovvero la tendenza a considerare il futuro meno tangibile e cogente del presente, e a subordinare la tutela del patrimonio biosferico ai compensi materiali di breve termine.
Attraverso una serie di quattro pubblicazioni, ci proponiamo di fare chiarezza su un argomento molto dibattuto e poco compreso, evocando scenari futuri e futuribili in grado d’illustrare l’impatto che i fenomeni geofisici possono avere sullo sviluppo delle società umane.
Siamo giunti al terzo capitolo di questa nostra esplorazione delle dinamiche geopolitiche del cambiamento climatico. Negli articoli precedenti (che potete trovare qui e qui), abbiamo introdotto i pilastri concettuali utili alla comprensione del fenomeno, illustrato le basi scientifiche che ne sottendono lo sviluppo e chiarito parte delle sue conseguenze nella dimensione geopolitica. Ora, approfondiremo il tema della deforestazione, i cui numeri lasciano intendere un impatto estremamente pesante sugli equilibri del sistema biosferico e sullo sviluppo delle società umane.
La deforestazione non è un fenomeno naturale, o una conseguenza indiretta di politiche industriali scellerate, ma una vera e propria attività umana. Le ragioni che sottendono la deforestazione sono molteplici, e tutte s’inquadrano in una dimensione meramente economica: ricerca e raccolta di legname, creazione di spazio utile all’agricoltura, all’allevamento e all’industria. Come per gran parte dei macroprocessi che abbiamo analizzato nel quadro della geopolitica del cambiamento climatico, anche per la deforestazione vale la regola della “sconto iperbolico”: la tendenza, cioè, a subordinare la tutela del patrimonio biosferico ai vantaggi materiali di breve e brevissimo termine. Sul piano economico, l’abbattimento delle aree boschive comporta dei vantaggi immediati, relativi allo sfruttamento del legname e alla riconversione del territorio, ma a lungo andare determina perdite ingenti, e non solo per le aziende che operano sul territorio, ma per l’umanità nel suo complesso. È questa caratteristica che rende le foreste, in un ottica sia politica che economica, dei veri e propri common goods. Secondo i dati della FAO, la metà delle foreste tropicali sul pianeta è già scomparsa come effetto della deforestazione, e le stime potrebbero addirittura peggiorare se i governi dei Paesi maggiormente coinvolti non si decideranno a intervenire con incisività. Ogni anno si perdono circa 7,3 milioni di ettari di zone boschive – più o meno l’ampiezza delle regioni Piemonte, Lombardia e Emilia Romagna combinate.
Per quale ragione le foreste sono così importanti per la tutela del patrimonio ambientale? In primo luogo, esse rappresentano pilastri fondamentali nel contenimento e nello smaltimento dell’anidride carbonica. Attraverso la fotosintesi clorofilliana, le piante sono in grado di ammortizzare il carico di CO2 presente nell’atmosfera, equilibrando il sistema. Come abbiamo più volte rimarcato nel primo capitolo della serie, l’anidride carbonica è il più importante tra i gas nobili che determinano il riscaldamento globale. L’aumento di questi gas nell’atmosfera, che ha ormai raggiunto le 410 ppm – picco che molti scienziati considerano irreversibile – sta conducendo a fenomeni d’instabilità meteorologica sempre meno prevedibili o controllabili.
È per questo che le capacità di assorbimento delle foreste sono così importanti nel riequilibrio della composizione chimica atmosferica. Le foreste, per giunta, sono anche enormi depositi di anidride carbonica, immagazzinata e trattenuta nei tessuti delle piante. L’abbattimento determina dunque non solo una minore capacità di assorbimento generale, ma anche il rilascio immediato di tutta la CO2 precedentemente stoccata. Al contrario, pratiche di rimboschimento sortirebbero l’effetto opposto, riducendo il carico di anidride carbonica nell’atmosfera e alleviando tutti i fenomeni connessi.
Le foreste ricoprono poi un ruolo di cruciale importanza nel ciclo dell’acqua. Le chiome delle piante arrestano e assorbono gran parte dell’acqua piovana, frenandone il moto e limitando l’erosione del suolo. In secondo luogo, le piante ricoprono un ruolo significativo nell’evapotraspirazione, ovvero quel processo che permette la trasformazione dell’acqua contenuta nel suolo in vapore acqueo. La deforestazione determina quindi un disequilibrio nella formazione delle nuvole, poiché l’acqua, anziché risalire in forma gassosa, tende a defluire in maggior misura nel sottosuolo, alimentando, ancora, fenomeni di instabilità meteorologica.
L’apparato radicale delle piante, inoltre, conferisce al terreno una maggiore stabilità, incrementandone le capacità contenitive allorché si tratti di piani scoscesi o argini fluviali. In prossimità dei fiumi, la vegetazione contribuisce a diminuire la temperatura dell’acqua attraverso l’ombreggiamento, smorzarne l’impeto durante le piene, migliorare la struttura del suolo e fornire peculiari microhabitat per la fauna, sia all’esterno che all’interno del fiume. La deforestazione, dunque, oltre a ledere il patrimonio faunistico, paesaggistico e biosferico del pianeta, determina un incremento esponenziale dei fenomeni calamitosi come valanghe, piene e siccità.
Dobbiamo infine tener conto dell’impronta biologica lasciata dalle pratiche di deforestazione. Oltre che detrimento di terra coltivabile nel lungo termine, deforestazione significa anche perdita di biodiversità. Il settanta percento delle specie viventi trova nelle aree silvestri il proprio habitat naturale. Privare una specie della propria nicchia ecologica potrebbe determinarne l’estinzione. Caccia, allevamento e ricerca in campo farmacologico, per nominare solo alcune delle attività che dipendono dal patrimonio faunistico e floreale, vengono quotidianamente compromesse dalla perdita di biodiversità, recentemente attestatasi su posizioni allarmanti.
Global Forest Watch, un’organizzazione non governativa impegnata in attività di monitoraggio e sensibilizzazione nell’ambito del patrimonio forestale, ha creato una carta interattiva estremamente versatile per monitorare lo stato delle foreste nel mondo. Le regioni più colpite dai fenomeni di deforestazione sono l’America Latina (Brasile, Bolivia, Paraguay), l’Asia settentrionale (Russia), la penisola scandinava, le zone costiere dell’America settentrionale e l’Oceania (Papua Nuova Guinea, Malesia, Filippine, Indonesia, Vietnam, Thailandia, Laos, Cambogia). Per molti di questi Paesi, la deforestazione costituisce, dal punto di vista economico, un asset di primaria importanza per alimentare e accelerare lo sviluppo industriale. Gli incentivi al cambiamento, per essere davvero efficaci, oltre che sul piano morale ed etico, devono quindi compensare le perdite materiali di breve termine derivanti dal rimboschimento.
Un secondo progetto di Global Forest Watch riguarda un’altra carta interattiva – questa ancora in versione beta – relativa ai pericoli d’incendio, altro elemento cardine nell’analisi complessiva. Le aree maggiormente colpite dagli incendi sono l’Africa centrale, il sudest asiatico, l’Europa, l’Africa settentrionale e le regioni venezuelane e brasiliane dell’America Latina. Per arginare la deforestazione occorre agire anche in questa dimensione, organizzando e gestendo in maniera tempestiva e coordinata le attività di risk response e crisis management allorché scoppino incendi su vasta scala.
Ma in che modo i fenomeni di deforestazione impattano sulle società umane? Per quale ragione la perdita di aree boschive e forestali incide negativamente sullo sviluppo antropico? Abbiamo già parlato (qui) della popolazione polinesiana dei rapa nui. Per edificare gli imponenti moai, le famose statue dell’Isola di Pasqua, i rapa nui abbatterono ogni singolo albero presente sul’isola, innescando fenomeni di erosione del suolo e siccità che ridussero l’area coltivabile e compromisero il potenziale produttivo della popolazione. All’arrivo dei colonizzatori europei, il paesaggio era ormai brullo e inospitale. I rapa nui avevano abbandonato l’isola molto tempo prima, dopo aver combattuto fame e guerre intestine per le risorse. Un vero e proprio “suicidio ecologico” per antropologi e ricercatori.
La storia dei rapa nui mostra con chiarezza il nesso esistente fra il patrimonio boschivo di un territorio e la popolazione che ne gestisce lo sviluppo. Maltrattare il sistema ecologico in cui ci si insedia, benché possa paradossalmente offrire dei vantaggi materiali nel breve periodo, può compromettere la permanenza stessa dell’uomo in quell’area, cagionando emigrazioni incontrollate, guerre e carestie. Uno studio del WWF ha evidenziato come dal 1960, per effetto diretto della deforestazione, sia stato perso più di un terzo delle terre coltivabili a livello globale. Tenendo ben presente che le società antropiche, specie se non industrializzate o in via di industrializzazione, basano gran parte del loro sviluppo sulla produzione e il consumo di materie prime, il problema appare in tutta la sua gravità. Paesi come il Brasile, la Cambogia, la Papua Nuova Guinea, il Messico o la Russia, che oggi sfruttano le proprie risorse forestali per guadagnare compensi materiali di breve termine, potrebbero ritrovarsi, domani, senza abbastanza terreno coltivabile, gettando nel panico l’intera filiera economica del settore primario e provocando, se non mitigata, una penuria di beni di prima necessità.
Gli indiani d’America, nel valutare le loro azioni, consideravano i possibili impatti sulle generazioni avvenire – sette generazioni per l’esattezza. Il loro modo di pensare era collettivo, sinergico e a lungo termine. La loro è la risposta definitiva ai paradossi dello “sconto iperbolico”. Trarne gli insegnamenti dovuti risolverebbe forse i problemi cui stiamo andando incontro.
Di Marco Cantarelli e Francesco Balucani