Il fenomeno della migrazione è una delle grandi sfide che il mondo occidentale è costretto ad affrontare in questa particolare fase storica. Il modo migliore per farlo sarebbe quello di adottare del pragmatismo, del buon senso e di tralasciare le posizioni ideologiche.
I movimenti migratori sono oggetto di contesa politica tanto in Italia quanto nel resto del mondo: da un lato chi sostiene un’accoglienza (nei limiti dell’umana possibilità) coadiuvata da un’integrazione efficiente, dall’altro chi sostiene la politica delle porte chiuse o “quasi-chiuse”. In ogni caso, da ambo ai lati, si portano come argomentazioni esempi di alcuni Paesi più “efficienti” ad accogliere o respingere i flussi migratori.
Spesso, tra questi esempi, viene citato il modello australiano, che però è ben lontano dall’essere accettabile dal punto di vista della legittimità internazionale: l’ordine e l’efficienza in termini di migrazioni sono inoltre perseguiti dal governo di Canberra mediante il sistematico sacrificio di molte “buone pratiche” di umanità.
Il sistema australiano
Il sistema della gestione di coloro che migrano verso l’Australia (che comunque conta cifre più contenute di quelle che riguardano l’Europa) ha come perno i centri di detenzione per migranti irregolari. I due più famosi sono quello sull’isola di Nauru e quello sull’isola di Manus. Entrambi sono territori non australiani che appartengono rispettivamente a Nauru (piccolissimo Stato sovrano) e alla Papua Nuova Guinea.
Nauru ha cominciato ad “ospitare” i migranti diretti in Australia nel 2001 dopo la firma del Pacific Solution, accordo con il quale l’isola si impegnava nella costruzione di un centro di detenzione per migranti in cambio di aiuti economici da parte del governo australiano. Nel campo confluiscono i migranti diretti in Australia, tra cui etnie prevalenti sono quella iraniana, afgana e cingalese (si tratta mediamente di circa un migliaio di persone compresi donne e bambini). L’iter per l’ottenimento dello status di rifugiato politico (spesso rifiutato o sostituito da un “re-insediamento” forzato nell’isola di Nauru e non in Australia) è di circa 18 mesi, durante i quali i migranti vivono in condizioni drammatiche. Nel 2016 il The Guardian ha pubblicato diversi documenti nei quali venivano riportati vari “incidenti” accaduti a Nauru: abusi sui minori, violenze, carenze igienico-sanitarie, scarsità di cure mediche, casi di auto-lesionismo e di suicidio. Pratiche sostanzialmente tollerate dal governo di Canberra e usate come ulteriore deterrente all’arrivo di altri rifugiati. Nonostante la ovvia scarsa pubblicità sui centri di accoglienza off-shore australiani, gran parte dell’opinione pubblica, nel tempo, si è comunque dimostrata sempre più critica nei confronti dei campi per rifugiati come quelli di Nauru e Manus, e questo nonostante video governativi come questo.
Una situazione simile a quella di Nauru si ha anche sull’isola di Manus, territorio della Papua Nuova Guinea prevalentemente ricoperto dalla giungla, dove è sorto un identico campo di detenzione per i migranti che cercano asilo politico in Australia. Anche qui il numero degli individui si aggira intorno alle 900/1.000 unità, ma il campo è stato dichiarato illegale dalla stessa Papua Nuova Guinea (che riceve fondi e sovvenzioni da Canberra per tenerlo aperto). Proprio in questi giorni, sempre il The Guardian, ha rivelato alcune illegalità e problemi di Manus che, con poca sorpresa, sono simili a quelli di Nauru: auto-lesionismo, suicidi e tentativi di suicidio, violenze (anche sessuali), problemi di salute mentale, ma anche abuso di alcool e droghe. Tra gli ultimi eventi anche quello che ha visto come protagonisti alcuni militari posti a guardia del campo che, probabilmente in stato di ubriachezza, hanno aperto il fuoco contro le strutture del campo stesso; evento minimizzato dal governo australiano che però ora rischia di doversi occupare anche di una class action con riguardo a questi stessi fatti.
Entrambi i centri, che fanno parte del sistema di “gestione off-shore” australiano per i migranti, sono gestiti dalla Ferrovial, multinazionale spagnola che ha fatturato ingenti profitti con il business dei campi di detenzione, che non ha impedito le violenze perpetrate nei centri e che non ha migliorato le precarie condizioni di vita dei migranti al loro interno.
Dopo le cattive notizie, forse, si può passare a quelle buone, o almeno a quelle “non cattive”: i campi di Manus e Nauru verranno chiusi entro il 31 ottobre 2017. Ancora non si sa però con chiarezza dove verranno trasferiti i migranti e, soprattutto, se la politica per l’immigrazione australiana cambierà strada in direzione di una maggiore attenzione agli standard di protezione internazionale e di diritti umani.
Le migrazioni verso gli Stati Uniti…
Gli Stati Uniti sono oggi un paese multietnico, il risultato di secoli di migrazioni ed integrazioni. Nel corso del tempo gli USA hanno accolto migranti delle più diverse etnie (europei, asiatici, africani) facendo delle diversità culturali interne un ben noto punto di forza. Oggi la situazione è cambiata e il numero di migranti accolti (limitati a 70.000 l’anno tra il 2013 ed il 2015) non è paragonabile a quelli che arrivano annualmente in Europa. Le contingenze internazionali hanno costretto comunque la politica statunitense a concentrarsi maggiormente sulle migrazioni viste da parte dell’opinione pubblica come una minaccia alla sicurezza economica e, a causa del terrorismo, anche sociale. Il risultato è stata l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca. Al momento, la nuova amministrazione statunitense ha più volte rilanciato il progetto del muro al confine con il Messico per contrastare l’immigrazione illegale, ha aumentato fortemente i controlli disponendo il rimpatrio per quegli immigrati messicani non in regola, ed ha adottato il contestatissimo Travel Ban (da poco nuovamente bloccato). Difficile valutare cosa succederà in futuro, se si andrà verso ulteriori restrizioni o se la situazione si stabilizzerà. In ogni caso le procedure riguardanti l’accoglimento di migranti e rifugiati restano lunghe e complesse (fattori che incentivano ulteriormente l’immigrazione clandestina) e la Casa Bianca ha più volte negato la propria disponibilità ad accettare rifugiati (che ne avrebbero diritto, secondo alcune convenzioni internazionali) provenienti da zone di guerra, come per esempio la Siria.
… e le migrazioni verso l’Europa.
Il continente europeo è da tempo sotto pressione per quanto riguarda i flussi migratori che provengono principalmente dal Medio Oriente e dall’Africa sub-sahariana (come evidenziato da questo grafico interattivo). Come è noto, la questione migratoria viene affrontata con relativa incapacità dall’Unione: la politica di redistribuzione dei migranti, a causa dell’ostruzionismo di alcuni Stati (la Commissione Europea ha intrapreso azioni legali nei confronti di Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca) e dell’inerzia burocratica, non riesce a entrare a regime. Il risultato è un peso gravoso sugli Stati di “approdo” quali, da un lato, la Grecia che con la chiusura della rotta balcanica nel marzo del 2016, ha beneficiato di una notevole riduzione dei flussi rispetto al 2015, dall’altro l’Italia che è ritornata ad essere la principale porta d’accesso all’UE e che dal 1 Gennaio 2017 al 31 Maggio ha accolto 60,228 persone entrate via mare, con un incremento del 26% degli ingressi rispetto allo stesso periodo del 2016 (47,883). Radici e conseguenze sistemiche dell’approccio raffazzonato alle migrazioni sono interdipendenti: la scelta della detenzione come principale strumento della popolazione migrante, la lentezza nelle procedure per l’ottenimento dell’asilo politico, il problema sottovalutato dei diniegati presenti all’interno del continente fino alle polemiche e le ombre sui guadagni provenienti dai traffici migratori. Dal canto suo, l’accordo fatto con la Libia si è rivelato quasi del tutto inutile se non controproducente, mentre quello firmato con il Niger nel tentativo di arginare la rotta mediterranea centrale sembra già profilare una serie di problematiche all’orizzonte.
Di Enrico Giunta