Di fronte al rifiuto di ogni contestazione della vittoria di Rouhani e di fronte alla recente visita di Trump nella regione, su quale cammino si muoverà l’Iran dei prossimi quattro anni?
Il 19 maggio scorso la popolazione iraniana è andata alle urne per eleggere il proprio Presidente in una contestazione finale che ha visto protagonisti Rouhani e Raisi. Rouhani, Presidente dell’Iran dal 2013, è il volto della leadership iraniana moderata e riformista nonché la voce di quella frangia della popolazione che riconosce il futuro del proprio paese nell’apertura al mondo esterno, nella partecipazione popolare alla politica nazionale, e in un’economia di mercato libera, competitiva e moderna che sia capace di assorbire la forza lavoro qualificata che ogni anno si riversa dalle università sul mercato del lavoro. Raisi, al contrario, è il volto della leadership iraniana radicale e conservatrice più vicina all’Ayatollah e all’establishment religioso che dal 1979 guida il paese secondo una commistione di politica, sciismo e sharia che è da allora il tratto dominante del peculiare sistema politico-religioso iraniano. Diversamente dall’avversario, Raisi ha basato la propria campagna elettorale sulla propria immagine (costruita ad hoc) di leader delle masse meno agiate, di campione della realtà rurale che troppo poco figura nei discorsi e nei piani di Rouhani, nonché di difensore dell’orgoglioso nazionalismo iraniano che Rouhani è accusato di aver piegato alle richieste occidentali.
Le elezioni dello scorso maggio hanno dunque visto sfidarsi due candidati dai profili molto diversi e l’importante vittoria ottenuta da Rouhani – che è stato rieletto con il 57% dei voti contro il 38% ottenuto da Raisi – è il segnale di un Iran che crede nei passi verso l’apertura al mondo esterno compiuti negli ultimi quattro anni e che vede nel percorso da essi tracciato la strada che può portare il paese verso una crescita economica che anni di sanzioni internazionali hanno rallentato e che figura al primo posto nelle preoccupazioni della popolazione. E, del resto, la predominanza della linea moderato-riformista incarnata da Rouhani è stata testimoniata anche dal rifiuto da parte del Consiglio dei Guardiani di accogliere la contestazione del risultato elettorale lanciata da un Raisi sconfitto e deluso.
I prossimi quattro anni, dunque, vedranno l’Iran procedere sotto la guida di Rouhani e del governo riformista da lui nominato. Ciononostante, leggerne la netta vittoria alle urne come una netta sopraffazione dell’ala più radicale sarebbe una semplificazione non rispondente alla realtà. L’establishment religioso e conservatore dominato dalla figura del leader supremo Khamenei, infatti, continua a mantenere saldi nelle proprie mani poteri politico-giuridici, cariche istituzionali, e facoltà di veto con le quali Rouhani deve fare i conti mentre cerca la formula che traduca i suoi programmi di stampo più riformista in politiche realizzabili. Per dare al proprio elettorato moderato quanto promesso e per guidare l’Iran verso una crescita reale, Rouhani dovrà quindi cercare un difficile equilibrio tra le due anime del sistema iraniano –quella conservatrice e quella riformista- ed evitare mosse che rischino di trasformarsi in fonti di collusione.
Sul piano interno, la sfida principale con la quale Rouhani è chiamato a confrontarsi è rappresentata dall’economia. Nel 2015, al momento della firma dell’accordo nucleare con i P5+1, Rouhani aveva promesso che il conseguente cancellamento delle sanzioni internazionali verso l’Iran avrebbe reso possibile una considerevole crescita economica grazie al flusso di investimenti stranieri e all’apertura dei mercati internazionali. A differenza delle aspettative, però, la crescita economica promessa ha tardato a venire né è stata spettacolare quanto sperato a causa del mantenimento delle sanzioni unilaterali americane che hanno contribuito a preservare un clima di sfiducia generale verso le potenzialità di crescita della Repubblica Islamica, e a causa di un mercato internazionale del greggio che non ha ancora recuperato i livelli di prezzo passati. In questo contesto, la promessa con la quale Rouhani ha visto il proprio incarico riconfermato è stata quella di portare all’Iran crescita economica e posti lavoro e, perché ciò sia possibile, sarà necessario continuare lungo la strada dell’apertura ai rapporti economico-finanziari e commerciali con il mondo esterno. Al contempo, l’Iran dovrà implementare misure che creino un ambiente attraente per gli investitori stranieri e quindi investire in programmi di sviluppo e crescita di lungo periodo, diversificare l’economia, bilanciare gli investimenti nel settore industriale con investimenti in un settore rurale che non può essere lasciato indietro lungo il cammino della ripresa economica, e semplificare l’apparato burocratico.
A livello regionale, il post-Primavera Araba ha portato un rimescolamento delle carte nel “Grande Gioco” del Medio Oriente che ha visto l’Iran accrescere la propria influenza nella regione. Sia per mezzo di interventi diretti, sia per mezzo del supporto militare e finanziario ai propri alleati regionali, l’Iran si è affermato come attore cruciale nei principali teatri di scontro nei quali si sta scrivendo il futuro del Medio Oriente – Siria, Iraq, Yemen- e la volontà di creare una sfera di potere sciita nel Levante che si contrapponga all’influenza sunnita è la ratio che guida scelte e amicizie di Teheran. Tale stato di cose nello scacchiere mediorientale, in cui l’asse saudita-occidentale si contrappone a quello iraniano-russo, lungi dall’essere ridefinito sembra anzi destinato a cristallizzarsi. Da un lato, infatti, Rouhani deve rafforzare in patria la propria immagine di difensore del nazionalismo iraniano che i più conservatori gli hanno accusato di aver compromesso e di cui la leadership religiosa vicina a Khamenei si fa promotrice; dall’altro lato, la recente visita di Trump in Arabia Saudita e Israele ha rivelato il rischio crescente di isolamento regionale che l’Iran corre e che potrebbe incoraggiare quelle voci che nella Repubblica Islamica chiedono una politica regionale ancora più assertiva.
Infine, guardando oltre i confini del contesto mediorientale, la visita di Trump nella regione e la sua chiamata a raccolta del mondo sunnita in chiave anti-iraniana rivela una politica mediorientale da parte di Washington che mira a rafforzare i legami politici e militari con Arabia Saudita e Israele e a ridimensionare –quando non addirittura cancellare tout court– il riavvicinamento all’Iran perseguito da Obama. Alla luce di ciò, quello che sembra dovercisi aspettare per i prossimi quattro anni è un Rouhani meno disponibile a una riconsiderazione dei rapporti americano-iraniani e più vicino invece al tradizionale anti-americanismo della Repubblica Islamica. Di fronte a questo rinfocolamento di tensioni incentivato da Trump potrebbe allora profilarsi una politica estera di Teheran che, nel proprio tentativo di bilanciare necessaria apertura all’esterno con orgogliosa difesa del nazionalismo iraniano, volga maggiormente il proprio sguardo verso attori occidentali quali l’Unione Europea e –soprattutto- verso paesi asiatici quali Cina e Pakistan con i quali l’Iran sta sempre più intensificando i propri legami economico-commerciali.
di Marta Furlan