Le esternalità derivanti dal cambiamento climatico avranno un impatto forte e durevole sullo scenario geopolitico internazionale. Comprenderne le origini e prevederne i costi è conditio sine qua non per superare quello che gli psicologi chiamano “sconto iperbolico”, ovvero la tendenza a considerare il futuro meno tangibile e cogente del presente, e a subordinare la tutela del patrimonio biosferico ai compensi materiali di breve termine.
Attraverso una serie di quattro pubblicazioni, ci proponiamo di fare chiarezza su un argomento molto dibattuto e poco compreso, evocando scenari futuri e futuribili in grado d’illustrare l’impatto che i fenomeni geofisici possono avere sullo sviluppo delle società umane.
Nel primo capitolo della serie dedicata alla geopolitica del cambiamento climatico, abbiamo tentato di chiarire il ruolo dell’atmosfera terrestre nella definizione dell’assetto meteorologico e di valutare l’impatto sulla temperatura percepita nella troposfera di un costante incremento dei gas serra determinato dalle esternalità dei nostri sistemi produttivi.
Gli agenti gassosi responsabili del cosiddetto effetto serra – anidride carbonica, metano, vapore acqueo – intrappolano parte dei raggi ultravioletti provenienti dal sole, riscaldando il pianeta. L’alterazione della composizione atmosferica determinata dall’avvento delle civiltà industrializzate ha portato queste componenti gassose ad aumentare da 280 ppm (parti per milione), nell’epoca preindustriale, alle 410 ppm di oggi, con un aumento di circa 2 ppm ogni anno. Ne deriva, giocoforza, un tendenziale aumento della temperatura troposferica, che a sua volta condiziona tutti i principali sistemi biosferici.
Tra questi, il sistema idrico globale si è dimostrato particolarmente sensibile ai mutamenti climatici in atto nella biosfera terrestre. Il ciclo dell’acqua rientra nella lista dei cosiddetti sistemi complessi, caratterizzati da un grado elevato di sistematicità e da un’andamento imprevedibile. Alterazioni pur indirette delle sue condizioni di equilibrio (o di disequilibrio dinamico, per essere più precisi) sono suscettibili di produrre variazioni anche notevoli nel tempo. Per capire il perché, è necessario comprenderne anzitutto il funzionamento.
Sintetizzando, l’acqua degli oceani evapora sotto l’azione dell’irraggiamento solare e si sposta verso la terra sotto forma di idrometeore costituite da piccole particelle idriche condensate e cristalli di ghiaccio – le nuvole – per poi precipitare – in modalità nevose o piovose – sulla superficie terrestre. L’acqua viene poi imbrigliata dai sistemi torrentizi e fluviali e spinta verso le coste, per poi tornare nuovamente in mare. Nel sistema idrosferico assumono un ruolo importante anche le piante, che attraverso l’evotraspirazione – data dall’effetto congiunto dell’evaporazione dal suolo e della traspirazione delle piante – permettono anch’esse il trasferimento dell’acqua dal suolo all’atmosfera.
Sebbene i meccanismi che muovono il sistema idrico globale appaiano quasi elementari, conoscerne l’andamento e l’evoluzione nel tempo è estremamente difficile, ma anche estremamente importante. Di tutta l’acqua presente sul nostro pianeta, solo il 2% è acqua dolce, per larga parte intrappolata nei ghiacciai o nelle falde acquifere sotterranee. Proteggere le risorse idriche e preservare le capacità adattive del sistema nel suo complesso rappresentano dunque delle priorità ineludibili.
Ma in che modo il cambiamento climatico incide sul sistema idrico globale? Come tutti i sistemi naturali, il ciclo delle acque è molto sensibile alle modificazioni climatiche apportate dall’uomo. Negli anni a venire, il riscaldamento globale, determinato dall’aumento percentuale dei gas serra rilasciati nell’atmosfera terrestre, incrementerà il tasso di evaporazione generale, portando a condizioni climatiche sempre più instabili e imprevedibili. Il sistema meteorologico, in particolar modo nelle zone tropicali e alle alte latitudini, sarà caratterizzato da eventi ciclonici, alluvionali e temporaleschi sempre più intensi e frequenti.
Parallelamente, le regioni più secche e aride del pianeta assisteranno a un marcato decremento delle precipitazioni che innescherà fenomeni di desertificazione e siccità estrema. È probabile che entro il 2090 le regioni affette da siccità saranno dieci volte più estese rispetto a oggi. Altro fenomeno da non sottovalutare, anch’esso determinato dall’aumento della temperatura terrestre, è la trasformazione delle precipitazioni nevose in precipitazioni piovose, incline a elevare i picchi massimi di deflusso idrico nelle regioni continentali e montane. Meno neve significa anche una minore diluizione delle acque nei sistemi torrentizi, sia a livello superficiale che profondo, e un restringimento dei ghiacciai montani. Questo processo presenta un andamento piramidale: in un primo momento i flussi superficiali incrementeranno d’intensità, alimentati dallo scioglimento dei ghiacci e dall’aumento delle precipitazioni piovose, ma una volta persa la spinta propulsiva data dal deflusso dei ghiacciai montani, questi vedranno gradualmente ridursi il carico di acqua incanalata, compromettendo così la sopravvivenza stessa dei sistemi fluviali più piccoli.
Un discorso simile vale per la regione artica, dove la calotta glaciale si sta ritirando a ritmi allarmanti da quasi mezzo secolo. Qui, l’incremento termico agisce ad una velocità doppia rispetto alla media generale e le serie storiche ci dicono che mentre in passato sopravviveva più del 30% della calotta nella stagione calda, ora questa percentuale è scesa al 13% e si sta abbassando con un ritmo esponenziale. Per di più, le infiltrazioni idriche nei crepacci che si stanno formando sulla superficie della calotta potrebbero accelerare ulteriormente il processo di scioglimento. Una delle conseguenze più allarmanti di questo fenomeno è l’innalzamento delle acque. Un decremento dell’1% della calotta artica corrisponde a un aumento di circa 30 cm del livello del mare. Per rendere meglio l’idea, qualora perdessimo il 4% della calotta artica, potremmo tranquillamente dire addio alla Repubblica delle Maldive. Oltre a fenomeni di inabissamento, lo scioglimento dei ghiacciai, che grazie all’alto coefficiente di riflessione albedo contribuiscono alla dispersione dei raggi ultravioletti, determinerà poi un ulteriore incremento della temperatura terrestre, innescando una spirale degenerativa che molti scienziati già definiscono irrefrenabile.
Valutare i rischi derivanti dai mutamenti del sistema idrico globale non è certo semplice. Le variabili in gioco sono molte e l’andamento del sistema presenta un carattere profondamente caotico. Il World Resources Institute, malgrado le difficoltà, è riuscito a predisporre un atlante interattivo estremamente elaborato. Grazie al progetto Aqueduct, è possibile monitorare i rischi idrici al momento presente e in prospettiva futura, calibrando e orientando l’analisi tramite l’ampio ventaglio di variabili disponibili. C’è poi da rilevare, non da ultimo, le conseguenze che lo stress idrico determina sul piano economico. Secondo le proiezioni della Banca Mondiale, la scarsità d’acqua è associata a una perdita di PIL di oltre il 6% nei Paesi affetti da siccità, oltre a determinare, nel caso di fenomeni precipitativi intensi o di desertificazione, un incremento dei flussi migratori e degli eventi bellici.
Gli effetti del cambiamento climatico sul sistema idrico globale mostrano un impatto maggiore in determinate regioni del globo, tra cui l’Africa sahariana, il Medio Oriente, l’Asia centrale e i Paesi equatoriali del sudest asiatico, ma se l’intento è quello di ravvisare conseguenze sul piano prettamente geopolitico, l’Artico è di certo il quadrante su cui posare lo sguardo. Qui, gli effetti congiunti dello scioglimento dei ghiacciai, della perdita di acqua dolce e dell’aumento delle precipitazioni piovose concorrono a determinare un quadro di generale instabilità geopolitica, alimentato peraltro da fattori esogeni come l’esaurimento delle fonti carbonifere, l’aumento del traffico commerciale marittimo, lo sviluppo di tecnologie estrattive avanzate e il deterioramento dei rapporti tra Stati Uniti e il neocostituito asse sino-russo.
Il meccanismo che sta trascinando l’Artide dalle periferie al centro dello scacchiere geopolitico internazionale è lo scioglimento della calotta artica, il cui spessore si è sostanzialmente dimezzato nel corso degli ultimi quarant’anni. Il disfacimento dei ghiacci aprirà nuove rotte commerciali – ve ne abbiamo parlato qui – in grado di dimezzare tempi e costi di navigazione, e potrebbe rivelare giacimenti carboniferi o minerari per l’estrazione di petrolio e terre rare. Il professor Bin Yang, della Shangai Maritime University, ha calcolato che la Cina, da sola, risparmierebbe una cifra compresa tra i 60 e i 120 miliardi di dollari l’anno sfruttando il passaggio attraverso la regione artica, evitando Panama, Suez e non da ultimo le acque infestate dai pirati del golfo di Aden.
Se fino a qualche tempo fa la regione artica era considerata territorio internazionale, questo status è ora a rischio. Malgrado la lunga tradizione di relazioni internazionali improntate alla cooperazione, i crescenti interessi economici nell’area potrebbero innescare un vortice di tensioni tra le potenze che affacciano sul Mar glaciale artico. La Russia – in prima linea sul fronte artico – ha dato il via alla realizzazione di un piccolo avamposto militare sull’isola di Kotel’nyj, a nord delle coste siberiane, dove alloggerà il 99th Arctic Tactical Group dell’esercito federale. Alle brigate terrestri, sono da aggiungersi diversi sottomarini nucleari e un avamposto navale sull’isola di Wrangel, nel Mare dei Ciukchi. L’impegno russo nella regione – che risale agli anni della guerra fredda – ha scatenato una corsa agli armamenti tra le principali potenze del pivot artico, spingendo Stati Uniti, Canada, Norvegia, Finlandia e Danimarca a costituire forze d’intervento rapido pronte a intervenire in condizioni meteorologiche avverse. Nel 2010 la Norvegia ha acquistato 48 caccia Lockheed F-35, adatti alla ricognizione aerea nella regione artica, e ha organizzato delle prominenti simulazioni militari volte a definire una dottrina operativa indirizzata alla protezione dei fondali petroliferi offshore. Anche il Canada ha prontamente definito una sua Northern Strategy, che “comprende finora l’allestimento di una guardia costiera, l’acquisto di navi rompighiaccio, l’approntamento di centri logistici militari nei Territori del Nordovest, la messa in volo di droni da ricognizione e il collaudo di una flotta di motoslitte stealth, nome in codice Loki” (Parag Khanna, Connectography, Fazi Editore, 2016, cit. op., p. 351). Le nozioni di diritto internazionale stabilite nel 1994 a Montego Bay, stante l’incapacità di definire con accuratezza la conformazione della piattaforma continentale sottostante la calotta artica, non sono riuscite finora a mitigare questo graduale processo di militarizzazione, che negli anni potrebbe anzi crescere d’intensità, dando luogo a una processo di spartizione territoriale coatta.
A complicare ulteriormente la faccenda, la Groenlandia potrebbe dichiarare già nel 2021 la propria indipendenza dalla Danimarca – ve ne abbiamo parlato qui – dando il via a un processo di edificazione nazionale in grado di rimodellare le dinamiche geopolitiche nella regione e rimettere in discussione le strategie politiche finora articolate dalle principali potenze impegnate nell’Artico. L’ingresso in scena di un nuovo attore, peraltro costretto a delegare a terzi la propria sicurezza, potrebbe persino acuire le tensioni latenti tra Stati Uniti, Canada, Russia e Cina, alimentando un processo di disgregazione istituzionale che potrebbe infine degenerare in uno scontro armato su larga scala. Se poi includessimo nell’analisi il ruolo della presidenza Trump, notoriamente maldisposta al compromesso, le previsioni non potrebbero che peggiorare.
Nel 2009 venne diffusa una pubblicazione di Lawson W. Brigham, direttore della U.S. Arctic Research Commission, in cui venivano proposti quattro scenari futuri ipotetici per l’Artico: Globalized frontier, Adaptive frontier, Fortress frontier e Equitable frontier. Al di là dell’esattezza o della puntualità dimostrata nella redazione del testo, questo report dimostra come il futuro sia ancora aperto a scenari tra loro antitetici. Che si vada verso una sostanziale chiusura delle frontiere marittime e relazioni diplomatiche ostili, o verso una gestione adattiva, collettiva e sostenibile del pivot artico, dipenderà dai movimenti di una serie di variabili interagenti, quali il cambiamento climatico, l’evoluzione dell’infrastruttura e della tecnologia dei trasporti, l’oscillazione del prezzo delle risorse carbonifere e minerarie, la degradazione ambientale, l’efficacia diplomatica del Consiglio Artico, lo status socioeconomico delle popolazioni indigene autoctone e il contesto geopolitico mondiale.
Di Marco Cantarelli e Francesco Balucani