Prima che al potere salisse Recep Tayyip Erdogan, in Turchia vigeva un sistema di governo ibrido, dove coesistevano due fonti di legittimazione del potere in conflitto l’una con l’altra. Un parlamento eletto e rappresentativo, impegnato a ridefinire il contratto sociale e una élite militare burocratica non eletta, ma tuttavia auto-legittimata a intervenire, in difesa dei pilastri kemalisti, su cui si sorreggeva la Repubblica di Turchia.

La nascita del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (14 Agosto 2001) sotto la leadership di Recep Tayyip Erdogan segnò l’inizio di una nuova stagione per la politica turca. Alle elezioni generali del 2002 il partito ottenne il 34% e si assicurò la maggioranza in parlamento, cosa che non accadeva dal 1983, tuttavia Erdogan divenne Primo ministro solo un anno dopo; dovette aspettare di scontare la condanna per incitamento all’odio religioso e violazione della “laicità” che ricevette nel 1997 (e che terminò la sua esperienza come sindaco della municipalità di Istanbul 1994-1998) per aver recitato in pubblico una poesia del nazionalista pre-repubblicano Ziya Gokalp.
Il suo partito pur rifacendosi a una lunga serie di formazioni religiosamente orientate guidate da Necmettin Erbakan rifiutò di essere etichettato come una forza islamica, preferendo la definizione di conservatorismo democratico. Recep Tayyip Erdogan ribadì in svariate occasioni come l’AKP aderisse a valori democratici e lungi dal possedere un’agenda segreta religiosa, avrebbe lavorato all’interno della cornice secolare dello Stato turco.
Nei primi anni duemila il background islamico del Primo ministro era da interpretarsi in un’accezione culturale e sociale, se così di può dire motivazionale. Erdogan decise di abbandonare la strada dell’Islam politico (prendendo le distanze dalle formazioni che lo avevano preceduto e in cui aveva militato) poiché nell’epoca della globalizzazione il tempo delle ideologie ivi incluso l’islamismo era finito. L’AKP non solo archiviò le crociate contro l’occidente, (Erdogan dedicò il suo primo mandato al tentativo di adeguare il paese ai criteri di Copenaghen), ma considerò l’adesione all’Ue come l’esito naturale del processo di modernizzazione. L’avvio dei negoziati d’adesione nel 2005 permise a Erdogan d’inserirsi di diritto nella storia dei leader di successo della Turchia contemporanea.
L’alleanza con l’Europa, non solo avrebbe legittimato l’azione del suo governo, ma l’avrebbe aiutato a eliminare -una volta per tutte- l’influenza dell’esercito dalla vita politica del paese, dato che la stessa, era contraria alla democrazia.
In effetti, quattro colpi di Stato attuati in difesa della polity (nel 1960 dalle derive autoritarie del primo governo democraticamente eletto, nel 1970 e nel 1980 per porre un freno all’avanzata del socialismo e nel 1997 a tutela del principio di “laicità” contro le tendenze reazionarie del Primo ministro Erbakan), sembrano inconciliabili con ideali democratici; è vero però che i militari erano l’unica forza istituzionale capace di frenare l’avanzata dell’Islam politico all’interno delle istituzioni repubblicane. L’alleanza con Fethullah Gulen risultò decisiva per Erdogan, che già nel 2002 aveva a disposizione sua e dell’AKP l’impero mediatico del predicatore che lo sosterrà senza esitazioni sino al 2010. Questa relazione pericolosa, nel 2007 imbastì il caso Ergenekon con cui fu liquidata per sempre l’autorità dei militari (che nello stesso anno avevano cercato senza successo di dissolvere il partito politico di Erdogan, colpevole di possedere un’agenda segreta per rovesciare il regime repubblicano, colpo di stato giudiziario). Ergenekon era una presunta organizzazione vicina all’esercito che secondo il Procuratore generale stava tramando per attuare un colpo di Stato. Centinaia di militari, ufficiali e giornalisti furono accusati di farne parte e finirono in prigione. Le opposizioni gridarono allo scandalo e additarono Erdogan come il principale responsabile del tentativo di ridurle al silenzio. Egli rispose che non era lui a controllare il potere giudiziario (peraltro dicendo la verità, dato che a farlo ci pensavano gli uomini vicini a Fethullah Gulen, suo complice in questa manovra). Il fatto che in Turchia venisse interrotta la prassi che permetteva all’esercito di sovvertire la volontà popolare era sicuramente IL passo verso la democrazia; tuttavia il caso Ergenekon è stato contrassegnato da mancanza di prove, artifici, detenzione illegale e sembra voler subordinare l’esercito non allo stato ma all’AKP (M. Koplow, S. A. Cook, The Turkish Paradox, «Foreign Affairs», June 27, 2012).
La resa dei militari arrivò alla fine di una campagna fatta d’intimidazioni, minacce e prigionia a danno degli oppositori dell’AKP. Così mentre l’Europa incoraggiava la Turchia a limitare il potere dell’esercito nella sfera politica del paese (così da poter essere “inserita” all’interno dell’esclusivo club democratico comunitario), l’AKP archiviava la pratica servendosi di metodi autoritari e repressivi.
Nel 2011 la Turchia è stata posizionata da Giornalisti senza frontiere, al 148 posto su 178 paesi per quello che concerne la libertà di stampa; nel 2012 oltre 90 giornalisti furono messi in prigione (ed è utile ricordare che per la legge turca possono trascorrere sino a tre anni in attesa del processo). Nello stesso anno furono sottoposti alla corte di Giustizia Europea oltre 15.000 casi, concernenti violazioni di vario genere, ma principalmente riguardanti la libertà di pensiero, contro i 3.000 presentati dalla Gran Bretagna e i 2.500 di Francia e Germania.
L’altra priorità del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (oltre a liquidare l’establishment repubblicano) era la stabilizzazione economica che si sarebbe raggiunta in aderenza alle regole del libero mercato. Erdogan dimostrò di accettare ben volentieri gli aiuti del Fondo Monetario Internazionale; incoraggiò gli investimenti stranieri nel paese e la privatizzazione. Le riforme economiche realizzate dall’AKP nell’arco di un decennio, incoraggiarono una notevole crescita che convinse i cittadini turchi a supportare Erdogan, e allontanarono la possibilità di realizzare uno Stato islamico in Turchia, a meno che lo stesso, non si dichiari anche capitalista (eventualità che la recente disciplina dell’economia islamica non contempla).
A votare per il Partito della Giustizia e dello Sviluppo furono inaspettatamente anche i curdi, perfino nelle città del sud est che erano solite appoggiare formazioni autoctone. Le preferenze tra una tornata elettorale e l’altra raddoppiarono, raggiungendo nel 2007 il 54%. Una delle ragioni è da ascrivere all’atteggiamento più conciliante e contrario all’omogeneizzazione kemalista dimostrato da Erdogan (almeno sino al 2013) nei confronti dei curdi, “tuttavia l’influenza dei gruppi religiosi e in particolar modo dall’ordine sufi dei Nakşbendî il gruppo islamico maggiormente organizzato nell’est del paese, sembra aver giocato un ruolo decisivo, dato che iniziò a criticare apertamente il Partito Democratico della Società curda, influenzando notevolmente la sua base elettorale. (A.Rabasa, F.S. Larrabee, The rise of political Islam in Turkey, Santa Monica, Rand Corporation, 2008, p. 68)
Il Primo ministro più potente nella storia della Turchia, oggi Presidente era: “una grande speranza coltivata dall’occidente per un mondo musulmano illuminato, che negli ultimi anni è diventato il simbolo dell’autoritarismo, della corruzione e di un uso della forza illegittimo”.
L’involuzione autoritaria registrata negli ultimi anni si è accompagnata all’inasprimento dei rapporti con Fethullah Gulen che non gradiva l’ostilità del Primo ministro nei confronti di Israele, e che a seguito dell’incidente della Freedom Flotilla nel 2010 prese pubblicamente le distanze da Erdogan che pur l’aveva aiutato ad allargare ulteriormente la sua influenza, (pervasiva nell’apparato giudiziario e nella polizia oltre che nei media e nel campo dell’educazione). La fine del sodalizio ha arrecato per oltre un decennio danni al paese, i due non hanno perso occasione di rivaleggiare a danno delle istituzioni e dei cittadini.
Recep Tayyip Erdogan rappresenta l’esempio di un politico asservito al potere che come ricorda Elias Canetti nella sua intima essenza e al suo culmine sdegna le trasformazioni, basta a se stesso, vuole soltanto se stesso. (..) esso non agisce a vantaggio di nulla e di nessuno.