Dalla Mauritania al Sud Sudan, dalla Libia al Congo Kinshasa, guerre, terrore e carestie interessano spesso il continente africano. Nel cuore di questo caos c’è il Sahel, una regione vasta circa 3,5 milioni di km2, dove oggi diverse potenze occidentali – e non solo – stanno rivaleggiando per il predominio dell’intera area sub-sahariana. Conflitti giustificati in nome della lotta al terrorismo internazionale, ma che nascondono rivalità innescate dal possesso di risorse energetiche e dal desiderio di una supremazia territoriale.
L’Africa ha sempre rappresentato un terreno fertile per le grande potenze, in particolar modo quando queste si trovano ad affrontare situazioni di crisi sul piano economico ed energetico. Quali che siano le cause – oggi come in passato – le ingerenze esterne vengono di norma giustificate. Non solo aiuti umanitari, prestiti, investimenti astronomici e supporto nella lotta al terrorismo internazionale. Spesso le grandi potenze hanno supportato dittatori e foraggiato gruppi jihadisti, salvo disfarsene una volta raggiunti determinati obiettivi.
Il Sahel non sfugge da tale dinamica. Il jihadismo che si è diffuso in quella zona del continente appare oggi come un giusto pretesto per occupare terre ricche di risorse naturali. Operazioni, ben orchestrate da Francia e Stati Uniti, che hanno come obiettivo dichiarato combattere il terrorismo, celano talvolta la volontà di affermare la propria influenza e guadagnare egemonia sul territorio.
La Francia nel corso dei decenni ha rivestito un notevole ruolo politico e militare nella regione sub-sahariana. Attraverso il suo esercito, l’Eliseo cerca di salvaguardare governi amici con l’obiettivo di difendere interessi economici di lunga data. La Francia ha un budget totale di circa 31 miliardi di euro destinati alla Difesa (2015) e possiede oltre 10.000 soldati impiegati su tutto il continente africano.
Per gli Stati Uniti, l’11 Settembre 2001 segnò ovviamente un punto di svolta. Da allora, in maniera silenziosa, gli Usa hanno intensificato la loro presenza sul continente: prima nel Corno d’Africa, e oggi nel Sahel. Con la lotta al terrorismo internazionale promossa prima dalla dottrina Bush Jr e poi confermata dalla politica estera di Obama, Washington – attraverso lo strumento politico-militare Africom – gli Stati Uniti hanno messo piede stabilmente nel Sahara. Il comandante dell’Africom Davide Rodriguez aveva confermato in un intervista l’esistenza di 11 basi cosiddette Cooperative Security Locations, attualmente operative, mentre la rivista The Nation, dichiarava nel 2015 l’esistenza di più di 60 avamposti e punti di accesso in oltre 30 stati africani. Una rete di basi che va al di là di ciò che il Pentagono ha rivelato al pubblico americano e tanto meno agli africani.
Cina e Giappone sono anch’essi molto impegnati in Africa – soprattutto la Cina, ne avevamo parlato qui – e recentemente anche la Germania ha espresso il desiderio di costruire una base militare in Niger in appoggio alla missione Minusma. L’interesse per questa regione non è solo filantropico, bensì è legato al desiderio di proteggere le risorse naturali vitali per le grandi economie sviluppate e in via di sviluppo. La minaccia del terrorismo, seppur reale, costituisce la scusa perfetta per entrare direttamente nel continente senza passare attraverso un macchinoso processo burocratica e politico.
Questa cintura arida e semi-desertica che si estende dall’Oceano Atlantico al Mar Rosso è sempre stata una zona turbolenta, caratterizzata da estrema povertà, insicurezza e spesso colpita da carestie. Teatro peraltro di diversi conflitti armati tra gruppi indipendentisti Tuaregh – movimenti di nomadi nati successivamente all’affermazione in epoca post-coloniale della forma statuale nei territori africani -, qui la disuguaglianza economica e sociale espone molti giovani al richiamo di vari gruppi armati.
Da anni il Sahel è la la base preferita per diverse cellule terroristiche del Maghreb. La vastità del territorio fa sì che sia facile sfuggire ai controlli delle autorità, che risultano incapaci di pattugliare e mettere in sicurezza un’area così vasta. In mezzo a tutto questo disordine ci sono i francesi.
Sì, perché dall’inizio del 2013 la Francia sta conducendo una vasta operazione militare nella regione del Sahel. Tre anni dopo l’operazione Serval in Mali – la più costosa mai sostenuta dalla Francia – e successivamente l’operazione Barkhane in Centrafrica e Ciad, i militari francesi sono attivamente impiegati in altri tre paesi dell’area saheliana: Mauritania, Niger e Burkina Faso.
Insieme a questi 5 paesi, denominati G-5, il governo parigino si garantisce – al di là delle giustificazioni umanitarie – investimenti e interessi strategici. Come spesso accade, le vittorie sul campo non si traducono in vittorie politiche. Un articolo di Foreign Affairs pubblicato nel febbraio 2016 illustrava le pericolose conseguenze che potevano risultare dai vari interventi svolti dalla Francia a sostegno di alcuni regimi amici dell’area.
Una egemonia che nonostante tutto la Francia fatica a mantenere. Il Governo parigino ha compreso l’importanza di queste terre e oltre a combattere i vari gruppi integralisti, Parigi cerca attraverso queste operazioni di mantenere la sua egemonia storica contro la presenza crescente di nuovi attori quali la Gran Bretagna, la Cina e, in particolare, gli Stati Uniti.
Una parte importante del fabbisogno petrolifero statunitense proviene dalle raffinerie africane. L’Eliseo è ben consapevole della situazione, e i vari interventi degli ultimi anni in Ciad, Costa d’Avorio, Mali e Repubblica Centrafricana, garantiscono indirettamente la salvaguardia di interessi strategici, possibilmente limitando l’accesso ad altri attori.
Molte società francesi quotate nel CAC40 posseggono quasi il monopolio del mercato in Africa. La Francia è inoltre largamente dipendente dall’energia nucleare (circa il 75% della sua produzione di energia è prodotta dai centrali nucleari) e la sua industria nucleare dipende in gran parte dall’uranio nel Sahel. Areva – azienda statale francese leader mondiale nel campo dell’energia nucleare – esporta dal Niger circa un terzo dell’uranio utilizzato nelle sue centrali, da oltre 40 anni.
Il Ciad, la Mauritania, l’Algeria e il Burkina Faso sono produttori di petrolio. Il Mali oltre ai giacimenti di petrolio è l’ottavo produttore di oro al mondo. In aggiunta ai governi accomodanti dell’area, Parigi può contare su circa 500 aziende del calibro di Total, Bolloré (infrastrutture portuali), Alstom, L’Oréal, e altre, già impiantate sul continente. In questa chiave va letta anche la presenza di altre potenze quali Cina e Giappone nel Corno d’Africa. Le strutture navali in Gibuti sono apparentemente insediate per combattere la pirateria del litorale dell’Oceano Indiano, ma chiari sono gli elementi che sottolineano una efferata corsa per l’accesso alle risorse minerarie e ad un mercato del consumo in espansione in Africa.
Il Washington Post definisce strategica e significativa la presenza americana in Niger, Burkina Faso, Ciad, Repubblica Centrafricana e Mauritania; zone storicamente sotto dominio influenza francese. Di fatto, Francia e Stati Uniti dispongono già di molte basi logistici e militari nell’area, ufficialmente per la lotto al jihadismo, tra il Sud della Libia, l’Algeria e il Mali.
In questa ottica rientra anche l’attuale politica estera tedesca. La Merkel – durante la sua recente tournée africana – ha tentato di convincere i paesi dell’aerea ad adottare un piano per la lotta contro il terrorismo, sottolineando nello stesso tempo la presenza crescente della Bundeswehr nella regione. Sono circa 850 i soldati tedeschi impiegati nella missione Minusma. Questo tour del Cancelliere tedesco segue alla visita del 2011, quando la Germania si rese conto dell’importanza delle questioni energetiche e commerciali africane. Tuttavia, con questo dispiegamento militare, Berlino va oltre la semplice partecipazione alla lotta contro il terrorismo e la crisi dei flussi migratori.
C’è un vero piano di espansione condotto dal Pentagono che ha come obiettivo quello di combattere il Jihadismo, come sottolineano due giornalisti del New York Times in un articolo pubblicato nel dicembre del 2015. Anche se, si rileva, la posta in gioco va ben oltre i problemi legati al terrorismo. La dimostrazione è data anche dalle spese astronomiche che molte potenze stanno sostenedo in aggiunta alle risorse umane impiegate particolarmente in questa zona dell’Africa.
Il pentagono schiera oggi più di 5000 soldati permanenti in Africa e, oltre alle decine di basi sparsi per il continente, sta costruendo una nuova piattaforma per droni nella città di Agadez – in pieno Sahel – per un costo di circa 100 milioni di dollari. Questa postazione permetterà all’esercito statunitense di aver maggior controllo e capacità di intervento in tutta la zona sub-sahariana.
Si stima poi che il governo Hollande abbia speso in media 2 milioni di euro al giorno per la sola operazione in Mali. La presenza francese in Africa appare comunque in declino. L’Africa, e particolarmente il Sahel, è diventato un importante campo di battaglia energetico oltre che geopolitico. Avere influenza in quella zona del mondo significa aver un vantaggio strategico non indifferente.
di Mohamed-Ali Anouar