Dopo aver ottenuto la sfiducia nei confronti di Mariano Rajoy, il nuovo Primo Ministro Pedro Sanchez deve trovare la giusta formula politica per calmare i propositi di rivincita dei Catalani. E per vincere le elezioni del 2020.
Per la prima volta dal 1975 il parlamento catalano, venerdì 1 giugno, ha approvato, con 180 voti a favore, una mozione di sfiducia nei confronti del premier Mariano Rajoy, costringendolo a cedere il suo posto a Pedro Sanchez, leader del Partido Socialista Obrero Espanol (PSOE). La mozione di sfiducia, fortemente voluta dai socialisti, non è stata un’operazione politica particolarmente difficile, poiché quello di Mariano Rajoy era un governo di minoranza, sempre in bilico, ma per ottenere i voti necessari Sanchez ha dovuto mettere insieme una coalizione piuttosto eterogenea: in favore della sua proposta hanno votato Podemos, i due partiti indipendentisti catalani presenti in parlamento, e il partito nazionalista basco.
Il premier Rajoy è stato sfiduciato per via dell’inchiesta Gurtel che ha colpito importanti esponenti del Partito Popolare, rivelando l’esistenza di un vasto sistema di favori e tangenti, in cambio di sostanziosi contratti pubblici tra il 1999 ed il 2005. La sfiducia ai danni di Rajoy è frutto di un preciso calcolo politico di Sanchez, per il quale le chances di assurgere al posto di primo ministro erano ridotte al lumicino: soltanto la settimana prima il PSOE era dato sotto il 20% delle preferenze, con molti analisti che si chiedevano quanto fosse ancora rilevante nel panorama politico spagnolo.
Con queste manovre Sanchez è diventato il nuovo primo ministro spagnolo, consentendo al PSOE di ritornare al potere dopo l’esperienza di José Luis Rodriguez Zapatero, sconfitto nelle elezioni del 2011 proprio da Mariano Rajoy. La prima sfida del nuovo governo a guida PSOE, partito che possiede soltanto 84 dei 350 seggi totali della camera, sarà quello di costruire una coalizione di governo, considerata l’attuale frammentarietà del panorama politico spagnolo. Lo scoglio principale sarà quello di trovare un’intesa con Podemos, il partito capitanato dal carismatico Pablo Iglesias, che non è mai stato tenero con Sanchez, ma che potrebbe seppellire l’ascia di guerra, convinto dai propositi di partecipare al governo.
Il cambio Rajoy-Sanchez porta in dote, però, un problema molto più spinoso della ricerca di potenziali collaboratori di governo: la questione catalana. Mariano Rajoy può essere considerato, a torto o ragione, il principale artefice dell’attuale situazione di stallo della questione catalana, il cui riemergere nel corso degli ultimi anni è inseparabile dalle decisioni prese dall’ormai ex leader del Partito Popolare. Gli indipendentisti catalani hanno accolto con favore l’opportunità di vendicarsi politicamente, avendo Rajoy rifiutato qualsiasi tipo di proposta dei catalani e reintrodotto il direct rule del governo centrale, richiamandosi all’art. 155 della costituzione spagnola.
È opinione abbastanza comune che il sostegno ricevuto per sfiduciare Rajoy, costerà a Sanchez qualche concessione nei confronti dei catalani, i quali hanno molte riserve su di lui, avendo paragonato il neo presidente catalano Quim Torra alla leader dell’estrema destra francese Marine Le Pen. La dimostrazione di questa necessità è giunta dai toni più concilianti con il quale il leader socialista si è rivolto da subito ai catalani, definendo per la prima volta la Catalogna e i Paesi Baschi come nazioni, e non regioni, seppur all’interno di una Spagna unita.
Nei giorni successivi Sanchez, dopo aver varato il suo governo, ha rimosso i controlli sul bilancio statale, introdotti da Rajoy nel 2015, che costringevano i governanti della Catalogna ad inviare periodici resoconti sulle spese sostenute dall’amministrazione locale e prefigurato la fine del governo diretto imposto alla regione, nei turbolenti giorni post referendum, pur nel quadro unitario garantito dalla Costituzione. Infine, ministri del governo socialista hanno prospettato la possibilità che i nove leader catalani tenuti in prigione a Madrid possano essere trasferiti in un carcere in Catalogna, in modo da permettere un più agevole contatto con i familiari.
Il test più difficile potrebbe verificarsi nel momento in cui i leader catalani arriveranno a processo, dove rischieranno fino a dieci anni di carcere: ogni dimostrazione di debolezza potrebbe costare molto a Sanchez e avvantaggiare Ciudadanos, già ampiamente avanti nei sondaggi, da sempre contrario all’indipendenza della Catalogna. Una potenziale strategia di Pedro Sanchez potrebbe essere quella di utilizzare i legami con il partito socialista catalano per ottenere il rinforzo dei partiti moderati nel parlamento catalano e puntare ad una riforma federale della Spagna, stemperando la voglie separatiste. Questa strada, al momento l’unica percorribile, è abbastanza stretta e difficoltosa perché ogni concessione fatta ai catalani deve essere dosata, per evitare di riaccendere nuove volontà separatiste.
In tutto questo sono ritornati a farsi sentire i Baschi che il 10 giugno hanno organizzato una gigantesca catena umana (circa 175 mila persone) per rivendicare il loro diritto ad esprimersi sull’autodeterminazione del proprio paese. Insomma, i problemi di Pedro Sanchez sono molti e differenti. Se riuscirà ad affrontarli e risolverli potrebbe diventare un candidato importante per le elezioni del 2020, in caso contrario la sua carriera politica, già diverse volte in bilico, potrebbe chiudersi definitivamente.
Danilo Giordano