La situazione siriana è un inferno. Capire cosa sta succedendo è doveroso in quanto esseri umani e indispensabile per la comprensione di quei fenomeni che travalicano i confini naturali di quella terra. Per questo motivo la nostra Rivista seguirà più da vicino la guerra siriana, che in realtà sono tante guerre diverse e sovrapposte, in modo da fornire un quadro sempre aggiornato e il più chiaro possibile.
Milioni di rifugiati all’estero e all’interno del paese rischiano di perdere case e proprietà a causa di una nuova legge del regime siriano che ne prevede la confisca.
La Legge N° 10, varata ad aprile dalla autorità siriane, dà tempo ai rifugiati fuggiti all’estero e agli sfollati interni al Paese, compresi quelli forzatamente trasferiti altrove dal regime nelle cosiddette “evacuazioni”, fino al 10 maggio per reclamare le proprie proprietà, pena la confisca. La legge è entrata in vigore questo mese, dando ai siriani solo 30 giorni per assolvere tale procedura.
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Un tempo irrealistico, se si considera che circa metà della popolazione siriana è sfollata (8 milioni) o rifugiata (6 milioni) e che molti hanno perso la documentazione delle proprie proprietà a causa della guerra.
Il regime afferma che la nuova legge mira a combattere le occupazioni abusive e ad aiutare la ricostruzione delle aree distrutte, ma per molti siriani è solo un modo per impedirne il ritorno e fare cassa.
Secondo la nuova legge infatti tutti coloro che cercheranno di registrare nuovamente le proprie proprietà dovranno prima ottenere l’approvazione degli apparati di sicurezza siriani, che operano solo nelle aree governative. Dal momento che, secondo alcuni documenti trapelati grazie ad alcuni disertori, sarebbero 1,5 milioni i siriani ricercati dal regime per essersi opposti a esso o per aver partecipato a manifestazioni anti-governative, appare ancora più improbabile che i rifugiati possano riottenere le loro case.
Il timore di milioni di siriani è che l’impossibilità di reclamare i propri beni in così poco tempo e senza le condizioni minime per un ritorno sicuro in patria implichi per loro un esilio permanente e una nuova fase nella ricomposizione demografica della Siria. Non a caso questa legge ricorda quella varata da Israele nel 1950 e denominata la “legge degli assenti”, che legalizzò la confisca delle proprietà dei palestinesi cacciati dalle loro case.
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Secondo gli analisti questa legge potrebbe servire come strumento di cambiamento demografico e ingegneria sociale, lettura che sembra avvalorata non solo dai fatti ma anche dalle parole dello stesso Bashar al-Assad che, in un discorso pubblico del 20 agosto 2017, affermò che “è vero che la Siria ha perso i suoi giovani e le sue infrastrutture, ma ha vinto una società più sana e omogenea”.
Tale affermazione, unita alle politiche di sfollamento forzato e ripopolamento degli ultimi anni e a quest’ultima legge, tradiscono un intento politico che mira alla liquidazione fisica di chiunque si sia opposto anche pacificamente al regime, e quindi all’impedire il ritorno ai milioni di siriani fuggiti, percepiti come traditori da estirpare.
I numeri parlano chiaro infatti: la maggior parte dei siriani fuggiti lo ha fatto perché presa di mira dalle repressione del regime, perché percepiti come oppositori, reali o presunti. Ciò era emerso già da due sondaggi del 2014 e 2015, che avevamo analizzato qui, ma è emerso ancora in una nuova indagine condotta nell’ultimo anno e mezzo dal Middle East Carnegie Center di Beirut, che ha presentato il nuovo rapporto, dal titolo “Voci inascoltate: di cosa hanno bisogno i rifugiati siriani per tornare a casa”, presentato a Bruxelles il 24 aprile in occasione della seconda Conferenza Internazionale sul Futuro della Siria e della Regione.
L’indagine, basata su interviste a centinaia di rifugiati in Libano e Giordania, mostra che la maggior parte di loro (il 90%) desidera ritornare in patria, ma non alle attuali circostanze con il regime da cui sono fuggiti ancora al potere. Precondizione necessaria per la stragrande maggioranza dei rifugiati è una transizione politica, processi di giustizia, garanzie di sicurezza per il ritorno e diritto a tornare nelle proprie case.
Come sottolineato da Maha Yahya, autrice del rapporto nonché direttrice del Middle East Carnegie Center di Beirut, “la crisi dei rifugiati siriani è una crisi politica con una veste umanitaria” e il regime ne è consapevole, per questo non intende favorire il ritorno dei rifugiati percepiti come traditori.
Con la cacciata di milioni di siriani che nel 2011 si sono sollevati contro il regime e con le politiche di ripopolamento e cambio demografico, il regime è infatti riuscito a consolidare il suo potere in aree in cui la società è ora “omogenea”, sia in termini politici – in quanto nelle sue aree il regime non ha più opposizione – sia in termini sempre più etnici.
Sebbene nel 2017 alcune migliaia di rifugiati siano tornati in Siria, il timore è che la confisca dei beni preluda a una loro riassegnazione ai siriani favorevoli al regime e ai suoi alleati, come iraniani e loro mercenari pakistani e afghani, sotto forma di compenso per la fedeltà e i servizi svolti.
Negli ultimi anni il regime ha avviato politiche di concessioni di case e quartieri alle milizie iraniane che combattono con il regime e ai loro mercenari, soprattutto a Damasco e nelle aree attorno a Homs. Lo scopo è politico: da un lato consolidare il controllo in aree e su popolazioni “omogenee”, dall’altro ricompensare le milizie alleate con terre, abitazioni e cittadinanza siriana. L’Iran in particolare porta avanti da anni un progetto di “sciizzazione” delle aree governative.
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Alla luce di ciò appare chiaro che le politiche di ricomposizione demografica della Siria stanno per entrare in una nuova fase e che le possibilità di un ritorno a casa di milioni di rifugiati si fanno sempre più difficili.
di Samantha Falciatori