La situazione siriana è un inferno. Capire cosa sta succedendo è doveroso in quanto esseri umani e indispensabile per la comprensione di quei fenomeni che travalicano i confini naturali di quella terra. Per questo motivo la nostra Rivista seguirà più da vicino la guerra siriana, che in realtà sono tante guerre diverse e sovrapposte, in modo da fornire un quadro sempre aggiornato e il più chiaro possibile.
I trasferimenti forzosi della popolazione civile sono crimini di guerra. In Siria, la pulizia etnica è pratica sistematica e risponde a fini politici. Ecco quali sono le conseguenze.
Da tempo in Siria è in corso una rimappatura demografica della popolazione, che avevamo analizzato qui, che consiste nel trasferire forzatamente e in massa la popolazione civile sunnita dei territori riconquistati dal fronte governativo sciita verso altre zone sunnite, in particolare Idlib. Ad aprile anche la popolazione sciita delle uniche due cittadine assediate dai ribelli sunniti, al Fua e Kafraya, è stata trasferita nella parte governativa di Aleppo come parte di un accordo, mediato da Iran e Qatar, che prevedeva il trasferimento dei civili sunniti di Madaya e Zabadani, a loro volta assediate dalle truppe sciite governative. Definito “l’accordo delle quattro città”, è stato il primo caso di un vero e proprio scambio di popolazione su basi etnico-religiose, insanguinato tra l’altro dal vile attacco terroristico, non rivendicato, in cui un attentatore suicida si è fatto esplodere in mezzo al convoglio in partenza da al Fua e Kafraya; secondo fonti della Protezione civile siriana, nota come Elmetti Bianchi, i morti sono stati circa 126 tra cui 60 bambini, in quello che l’ONU ha definito un crimine di guerra. I civili sono di fatto divenuti moneta di scambio, in base alla loro appartenenza etnico-religiosa, per fini politico-militari.
In realtà, trasferimenti forzosi della popolazione civile sono in corso da anni, gli ultimi in ordine cronologico sono quelli che hanno interessato la popolazione sunnita, assediata, dei sobborghi di Damasco di Qaboun e Barzeh, e dell’ultimo quartiere ribelle assediato a Homs, al Waer, la cui popolazione civile è stata interamente deportata a Idlib nei giorni scorsi. Homs, che nei primi anni di proteste di piazza fu ribattezzata “la capitale della Rivoluzione”, è oggi definitivamente in mano alle truppe siriane, iraniane e di Hezbollah, che ci si stanno insediando con le loro famiglie. L’Iran in particolare sta portando avanti un progetto politico di sciizzazione dei territori governativi siriani per consolidare la sua presenza in territorio siriano e la sua influenza sul regime, trasferendovi non solo le sue truppe sciite, ma come avevamo visto qui anche i mercenari afghani e pakistani che ha assoldato per combattere in Siria.
Questi trasferimenti forzosi, destinati a proseguire nei sobborghi di Damasco, concretano per sistematicità ed estensione non più solo una ricomposizione demografica della Siria, ma una vera e propria pulizia etnica. Quest’ultima non è un crimine in sé in base al diritto internazionale, ma è un insieme di azioni rispondenti a una politica volta a espellere un gruppo etnico, religioso o culturale da un dato territorio, attraverso misure coercitive e violenze, per alterare la composizione della popolazione per finalità politiche. L’azione che maggiormente concreta la pulizia etnica, oltre allo sterminio, è per l’appunto il trasferimento forzoso della popolazione civile, che, in base allo Statuto della Corte Penale Internazionale (art. 7 e 8), è sia crimine di guerra che contro l’umanità. Esso prevede “la rimozione delle persone, per mezzo di espulsione o con altri mezzi coercitivi, dalla regione nella quale le stesse si trovano legittimamente, in assenza di ragioni prevedute dal diritto internazionale che lo consentano”.
A parlare per la prima volta di pulizia etnica fu il Tribunale internazionale penale per l’ex Yugoslavia, in relazione al trasferimento forzoso di musulmani e croati da parte delle forze serbe per creare un’area esclusivamente popolata da serbi.
È proprio ciò che sta avvenendo in Siria dal 2016, soprattutto nell’area di Damasco e di Aleppo, tanto che la Commissione d’inchiesta ONU sulla Siria ha concluso nel marzo 2017 che il trasferimento forzoso della popolazione civile di Aleppo est, dopo la sua riconquista da parte del fronte governativo, fu un crimine di guerra. Dal momento che il caso di Aleppo non è affatto isolato e che dal 2016 il trasferimento forzoso di civili, ammorbidito con l’eufemismo di “evacuazione”, è diventato una vera e propria politica di governo, se analizzato nel suo contesto generale potrebbe essere crimine contro l’umanità, che per definizione deve essere “esteso e sistematico”. Proprio perché questi numerosi trasferimenti forzosi sono estesi e sistematici, sia sul territorio che nel tempo, sembrano delineare una politica di pulizia etnica, volta a ripulire certi territori dalla presenza di sunniti, che dopo il trasferimento vengono rimpiazzati da popolazione sciita. In realtà episodi di pulizia etnica risalgono già al 2013, con i massacri sistematici compiuti in villaggi sunniti, in particolare con il massacro di al Baida e Banyas, la cui popolazione sunnita fu massacrata e i superstiti costretti alla fuga, “ripulendo” di fatto quelle città sunnite, incastonate in un’area alawita, dalla presenza dei sunniti locali. Per far luce su questo drammatico episodio, Zeppelin ha intervistato un volontario della Mezza Luna Rossa, testimone del massacro.
I trasferimenti forzosi operati dal fronte governativo riguardano la parte occidentale e nord-occidentale del Paese, ma ci sarebbero altri casi registrati nella provincia del Rojava, istituita e controllata dall’YPG curdo nel fascia nord e nord-est del Paese. L’amministrazione YPG, infatti, avrebbe forzosamente espulso, anche sotto minaccia, popolazioni arabe locali dai villaggi conquistati, giustificando la decisione con motivi di sicurezza, in quanto le operazioni di sminamento delle mine piantate da ISIS richiedono l’allontanamento dei civili. La Commissione d’inchiesta ONU si è occupata di questo fenomeno, riscontrando che in alcuni casi la popolazione è potuta poi rientrare, ma in molti altri no. Anzi, si sono registrate demolizioni di case, sciacallaggi e distruzioni di terreni da parte dell’YPG denunciati da innumerevoli organizzazioni umanitarie, come Amnesty International (ottobre 2015), Human Rights Watch (giugno 2014) e KurdWatch. Quando una autorità impone un trasferimento forzoso, seppur temporaneo, deve garantire ai civili adeguate condizioni di alloggio, igiene, sicurezza e alimentazione, cosa che invece le truppe YPG, secondo la Commissione d’inchiesta, non hanno fatto (rapporto A/HRC/34/CRP.3).
Si sarebbe anche verificata la distruzione dei registri catastali nelle città a prevalenza araba conquistate dall’YPG, accompagnata da espropriazioni di beni, demolizioni di case, arresti arbitrari e sfollamento forzato; ciò suggerirebbe l’intenzione di impedire agli arabi locali di tornare rivendicando le loro proprietà e sarebbe in linea con il dichiarato progetto politico su basi etniche, il Kurdistan, che l’YPG vorrebbe creare. La Commissione d’inchiesta ha tuttavia ritenuto di non aver elementi sufficienti per parlare di crimini di guerra, almeno nel periodo in esame, cioè tra il 21 luglio 2016 e il 28 febbraio 2017.
Anche ISIS ha trasferito forzosamente i civili, in particolare le donne yazide vittime del suo mercato sessuale e i curdi, espulsi dalle aree sotto il suo controllo. In un rapporto del 2015, la Commissione d’inchiesta ONU scriveva che, nelle aree con diverse comunità etniche e religiose occupate da ISIS, le minoranze sono state costrette ad assimilarsi o fuggire e che ISIS ha forzatamente espulso i curdi da Raqqa nel luglio 2013 e nel novembre 2014 da Al Bab (Aleppo).
Tuttavia, per estensione, sistematicità e pianificazione politica del fenomeno spiccano su tutti i trasferimenti forzosi operati dal regime siriano, che stanno irrimediabilmente cambiando la configurazione demografica della Siria e oltre a costituire crimini di guerra, anche perché la popolazione espulsa dalle loro case non riceve alcuna assistenza, segnano un percorso irreversibile che sta portando a una divisione territoriale su basi etnico-religiose sempre più evidente. Il processo di “sciizzazione” delle zone sotto controllo governativo risponde a una politica statale di consolidamento della cosiddetta “Siria utile” (fascia costiera e asse Damasco-Aleppo). La Siria è già di fatto territorialmente divisa e ogni zona è sotto influenza straniera, sia essa russo-iraniana, turca o di ISIS: la “spartizione inevitabile” di cui parlammo già nel 2015 in questo articolo è oggi più tangibile che mai e le zone di de-conflitto (che abbiamo analizzato qui) non fanno che consolidare questo processo, che rischia di negare a milioni di profughi il diritto al ritorno.
di Samantha Falciatori