di Danilo Giordano
La bella pubblicità di una nota marca di telefoni cellulari, nella quale viene mostrata un’atleta sud sudanese (Margret Rumat Rumar Hassan) che si appresta a fare il suo ingresso alle Olimpiadi di Rio 2016, acclamata da tutto il paese, è quanto di più lontano ci sia dalla realtà. Il Sud Sudan ha, effettivamente, partecipato per la prima volta con una propria delegazione composta da tre atleti alle Olimpiadi, ma lo stato più giovane del mondo ha poco da festeggiare.
Nel mese di luglio il Sud Sudan è stato dilaniato da una serie di scontri che, secondo le ultime stime dell’Alto Commissariato dell’ONU per i rifugiati (UNHCR), hanno costretto oltre 60.000 persone ad abbandonare il paese. I problemi del Sud Sudan risalgono al dicembre 2013, quando il presidente in carica Salva Kiir ha accusato Riek Machar, ex-vicepresidente, di voler attuare un colpo di stato. Da quel momento, le scaramucce tra i due leader si sono trasformate in scontri diretti tra le rispettive etnie di appartenenza, ovvero i Dinka e i Nuer che hanno trasformato la contrapposizione, da politica a etnica.
Nel corso degli oltre venti mesi di conflitto la comunità internazionale è intervenuta più volte nel tentativo di porre fine al massacro, facendo siglare ben sette accordi di pace, tutti sconfessati nel giro di pochi giorni. L’ultimo, è stato firmato il 26 agosto 2015, grazie alla pressione politica esercitata degli Stati Uniti, principale sponsor dell’indipendenza del Sud Sudan e ha sancito il ritorno di Machar, la formazione di un governo provvisorio e il ritiro dei soldati ugandesi, impegnati sul campo a sostegno del governo. I combattimenti nel paese perà non si sono mai fermati e Machar, temendo per la propria incolumità, ha più volte posticipato il suo rientro a Juba, avvenuto soltanto il 26 aprile di quest’anno. L’accordo di Addis Abeba, però, aveva una serie di debolezze intrinseche, tra le quali quella di consentire la presenza contemporanea nella capitale di “milizie personali” sia del presidente Kiir che del ribelle Machar. La situazione è esplosa la sera dell’8 luglio quando i due “eserciti” sono venuti a contatto all’interno del Palazzo Presidenziale, e ne è scaturita un tremendo scontro a fuoco che ha lasciato sul terreno circa 200 persone, principalmente tra i sostenitori di Machar. La narrativa dominante circa quanto avvenuto l’8 luglio afferma che Machar, con circa 400 guardie personali, si sia recato appositamente al Palazzo Presidenziale per eliminare il suo rivale e prenderne il posto; secondo altri, sarebbe stato il presidente Kiir ad invitare appositamente Machar con il preciso intento di arrestarlo. Il giorno dopo, il conflitto è dilagato nelle strade della capitale, esaurendosi soltanto la mattina dell’11 luglio. La situazione nel paese è, però, tutt’altro che tranquilla e Machar è scappato nuovamente da Juba, rifugiandosi insieme a parenti e fedeli nel vicino Congo: dopo due anni di conflitto, alcune migliaia di morti e 900 mila rifugiati la situazione del Sud Sudan è ritornata al punto di partenza.
Nonostante i numerosi ostacoli posti dal governo sud sudanese, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha rinnovato il mandato della missione UNMISS (United Nations Mission In South Sudan) autorizzando l’impiego di altri 4.000 soldati, che costituiranno una Regional Protection Force, dedita alla protezione dei civili e delle opposizioni politiche, nonché al sostegno del debole processo di pace. L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Zeid Ra’ad Al Hussein ha accusato entrambi i contendenti di aver commesso atrocità e violenze, puntando il dito principalmente contro le truppe Dinka del presidente Kiir. Il caos sud sudanese ha influenzato però anche i soldati onusiani, incapaci di comprendere la complessità della situazione: il Segretario Generale Ban Ki Moon ha annunciato un’indagine indipendente per verificare le accuse di non intervento, nei confronti di alcuni uomini armati che hanno assaltato un hotel, ucciso un giornalista e stuprato alcuni civili.