Quali sono stati gli esiti dell’incontro a Singapore tra il Presidente Trump e il leader nordcoreano Kim Jong-un e cosa ha significato?
Il 12 giugno scorso abbiamo assistito ad uno storico incontro a Singapore tra il Presidente Trump e il leader nordcoreano Kim Jong-un, il primo faccia a faccia tra un presidente americano in carica e la massima autorità di Pyongyang.
Smontate le luci, ripartiti i reporter – e finito lo show – possiamo cercare di capire quali sono stati i risultati ottenuti con questo vertice.
Nella dichiarazione congiunta siglata dai due leader al termine degli incontri si trova innanzitutto l’impegno di entrambi al miglioramento e al mantenimento di buone relazioni diplomatiche per assicurare la pace.
In secondo luogo si sancisce l’impegno alla costruzione di un duraturo “regime di pace” nella penisola coreana e, in linea con la precedente dichiarazione di Panmunjon, al raggiungimento di una “completa denuclearizzazione della penisola (coreana)”.
Infine Stati Uniti e Corea del Nord si impegnano al rimpatrio di prigionieri di guerra e delle salme dei dispersi in azione, prevedendo, per coloro che sono già stati identificati, il rimpatrio immediato.
Quest’ultimo punto ha suscitato una certa ilarità. Trump, elogiando il risultato ottenuto per quanto riguarda il rimpatrio delle salme dei soldati americani caduti durante la guerra, ha voluto rimarcare ai cronisti come tale atto gli fosse stato espressamente richiesto durante la campagna elettorale da molti dei genitori dei soldati caduti.
Unico problema è che la guerra finì nel 1953, quindi 65 anni fa. Come sottolineato dallo storico Angus Johnston, un genitore diciottenne di un soldato diciottenne inviato al fronte coreano l’ultimo giorno di guerra, avrebbe avuto 99 anni nel 2016. Come abbia fatto Trump a ricevere durante la campagna elettorale migliaia di simili richieste, rimane un mistero.
Ma al di là di questa nota di colore, osserviamo come gli elementi su cui i due Paesi si sono trovati d’accordo – ossia denuclearizzazione e volontà di migliorare le proprie relazioni – sono formulate utilizzando un linguaggio vago e ambiguo. Ambiguo al punto da consentire a ciascuna delle due parti di presentarlo alla propria opinione pubblica come una vittoria personale. Permettendo cioè a Kim di mostrarsi al suo popolo come il leader legittimo di uno Stato riconosciuto e rispettato e a Trump come l’uomo di polso in grado di gestire situazioni di crisi rimaste finora irrisolte dalle precedenti amministrazioni.
Ma la sostanza è assai diversa. Le due parti infatti attribuiscono un significato diverso alle parole utilizzate nella dichiarazione comune. Per quanto riguarda la prospettiva dell’amministrazione americana l’impegno a procedere verso una completa “denuclearizzazione” della penisola coreana è da intendersi come la volontà di giungere alla cessazione definitiva del programma nucleare da parte di Pyonyang. Una cessazione che deve essere completa e soprattutto verificabile.
Per la controparte nordcoreana, invece, parlare di denuclearizzazione della penisola significa fare riferimento allo “sganciamento” della Corea del Sud dall’ombrello nucleare statunitense, oltre alla rimozione delle oltre 23.000 truppe appartenenti alle United States Forces Korea presenti nel Paese.
Anche l’impegno al miglioramento delle relazioni contenuto nel documento, essendo privo di qualsiasi gesto concreto che possa avviare il processo, è da intendersi come una semplice e vaga espressione di una volontà delle parti. Volontà certamente più che legittima, ma che se non supportata da piani di azione concordati rischia di rimanere lettera morta.
Una prima proposta concreta, passibile di migliorare effettivamente la situazione sul campo, è quella avanzata dal governo sudcoreano, che ha proposto una parziale smobilitazione dei pezzi di artiglieria che la Corea del Nord schiera lungo il confine, e il loro posizionamento in aree più lontane da esso. Una proposta sulla quale Pyongyang ad oggi non ha dato risposta.
In realtà la dichiarazione di Singapore appare in tutto e per tutto simile a quella sottoscritta dal padre del supremo leader nel giugno del 1993. Negoziati al termine dei quali le parti si impegnavano a non minacciare l’uso della forza e in cui veniva già incluso un riferimento all’arma atomica.
Nel documento venivano già espressi inoltre una serie di principi che avrebbero dovuto guidare le relazioni tra i due Paesi. Già a suo tempo si menzionava la volontà di perseguire la pace in una Corea libera dall’arma atomica (quella che oggi definiamo “denuclearizzazione della penisola coreana”), e la volontà di instaurare un regime di convivenza tra i due Paesi, teso alla riunificazione.
Le parole usate – 25 anni dopo – nella dichiarazione di Singapore non paiono differire in modo significativo da quelle precedenti. A essere cambiata è però la situazione sul campo, dato che ad oggi dobbiamo affrontare una Corea del Nord dotata di armi atomiche e di un programma missilistico intercontinentale che rappresenta una minaccia diretta, oltre che per Washington, per tutti i Paesi dell’area vicini agli Stati Uniti.
Nel documento finale manca però un qualsiasi impegno concreto verso il disarmo da parte della Corea del Nord che vada oltre la già annunciata moratoria su test nucleari e missilistici.
Pyongyang infatti ad oggi non ha un minor numero di testate nucleari e ha invariate capacità di produzione di materiale fissile. Non viene previsto nemmeno un limite temporale per lo smaltimento di tale materiale, né viene fissato alcun limite alla sua produzione. Inoltre osserviamo come dall’accordo siano assenti quegli strumenti di verifica dell’effettiva riduzione delle testate. Unica concessione del regime pare essere la distruzione di un sito di test per i motori di razzi intercontinentali, ma essendo anch’esso escluso dalla dichiarazione, non è al momento chiaro a quale sito si faccia riferimento.
Osserviamo invece una prima – e notevole – concessione da parte americana: la sospensione delle esercitazioni militari congiunte con la Corea del Sud. Concessione di cui curiosamente non si trova traccia nel documento e che è stata annunciata dal Presidente americano solo in un secondo momento.
É infatti lui a comunicare la sospensione a tempo indeterminato di quelle che definisce “esercitazioni provocatorie” ed “estremamente costose” che minacciano di mettere a repentaglio il clima di distensione raggiunto.
Una mossa destinata a fare molto scalpore nella regione e a generare non poche ansie anche tra i partner di Washington fuori area.
Gli Stati Uniti sono infatti impegnati in operazioni simili non solo nella zona del Pacifico e il regime nordcoreano non è certo l’unico a vivere tali esercitazioni come provocazioni. Dal dopoguerra molti Paesi – da quelli europei al Giappone – si sono infatti affidati a Washington per il mantenimento della propria sicurezza.
Sicurezza garantita sopratutto dalla costante presenza di soldati americani nei teatri operativi, che serviva a rafforzare la certezza di un intervento di Washington in caso di conflitto.
Decidere l’annullamento delle esercitazioni in Corea del Sud perché ritenute troppo costose rischia di mandare un messaggio per nulla rassicurante ai Paesi membri della NATO del nord-est Europeo. La Russia ha infatti molte volte lamentato lo svolgimento di tali operazioni, vissute come inutili provocazioni che dimostrano l’aggressività nei suoi confronti.
Un messaggio, quello di Trump, che quindi oltre a mettere in ulteriore allarme gli alleati ha creato delle perplessità anche all’interno delle sue forze armate. Limitare tali esercitazioni porta infatti ad una inevitabile diminuzione delle capacità operative e di coordinamento tra le diverse strutture militari, con ripercussioni sulle capacità di interazione tra le diverse forze armate e quindi sul loro grado di efficienza. Ciò in un periodo in cui le sfide all’ordine internazionale a trazione americana nato dopo la seconda guerra mondiale si fanno sempre più numerose.
L’accordo ha però già avuto una ricaduta positiva per il regime di Kim, per quanto riguarda il miglioramento delle relazioni con Pechino. Relazioni deteriorate nel corso dei primi anni della sua reggenza a causa della tendenza del giovane dittatore a interferire con i piani di sviluppo economico del Dragone Rosso, il quale ha dimostrato di non apprezzare l’instabilità portata nella regione dai numerosi test missilistici e nucleari condotti dalla Corea del Nord negli ultimi anni. Tuttavia non avendo interesse a creare situazioni di potenziale pericolo sui propri confini, la Cina molto probabilmente cercherà un alleggerimento delle sanzioni del Consiglio di Sicurezza ONU nei confronti del proprio bellicoso vicino.
Farsi fotografare affianco al presidente degli Stati Uniti e farsi riconoscere un trattamento da pari è stata quindi per Kim una fortissima vittoria di immagine e una fonte di legittimazione sia interna che internazionale. I numerosi commenti di Trump – il quale ha espresso per lui e le sue capacità di leader una notevole ammirazione – hanno ulteriormente contribuito a ripulire l’immagine di un dittatore che solo pochi mesi fa era considerato un paria del sistema internazionale.
Questo incontro con il presidente americano porta dunque a conclusione il programma nucleare nordcoreano, dandogli un legittimo riconoscimento degli effetti politici che questo ha avuto. Tale raggiungimento permetterà al leader del nord di dedicarsi al secondo binario della sua politica, quello economico, avendo dalla sua la validissima assicurazione sulla vita fornita dall’arma atomica.
Quindi la vaghezza degli impegni presi rimanda al futuro le decisioni concrete, riducendo il meeting a quella che possiamo definire una photo opportunity politicamente conveniente per entrambi, ma dagli incerti effetti di lungo periodo.
di Andrea Cerabolini