Lo Stato è una creazione dell’uomo e in quanto tale assume sembianze che variano nel tempo a seconda dei diversi contesti. Non è un caso se in un’epoca come la nostra, dove i cambiamenti sono rapidi, le frizioni tra le forme della realtà e gli assetti istituzionali si fanno sempre più aspre, e se proprio gli effetti della globalizzazione sulle istituzioni politiche, mettono in discussione i caratteri fondanti dello Stato come siamo abituati a pensarlo.
La nascita dello Stato moderno risale tradizionalmente alla Pace di Westfalia, siglata nel 1648 a seguito della quale sono stati ridisegnati i confini delle Monarchie europee. Gli Stati che nacquero rispondevano ad una nuova concezione di sovranità, destinata a durare, nei suoi caratteri fondanti, fino ai giorni nostri. Una sovranità “assoluta” che prendeva le redini dei fenomeni sociali, economici e politici che si manifestano all’interno dei confini nazionali. Il rapporto tra Stato e fenomeni economici, in particolare, è stato bilanciato a favore del primo: lo Stato westfaliano si è dotato degli strumenti per dominare il mercato e regolarne le attività, garantendone la conformità alle leggi, traendone benefici.
Questo era possibile essenzialmente perché i fenomeni di rilievo economico e sociale avevano soprattutto un’origine endogena, ed erano dunque gestibili con gli strumenti a disposizione dello Stato. Lo stesso vale in un certo senso per i processi di cambiamento che nel corso dei secoli hanno interessato le nazioni, cambiamenti che hanno avuto origine da conflitti intra-sociali e tra establishment differenti (se si escludono le guerre tra diversi Stati).
Con la globalizzazione, le cause di crisi dello Stato – e della sovranità – confluiscono dall’esterno del rapporto tra potere politico e società civile. Le innovazioni tecnologiche, la trasformazione del capitalismo in senso finanziario, la de-materializzazione della proprietà e la caduta delle barriere – commerciali, informative, doganali, eccetera – hanno sancito l’avvento di una dimensione globale, che prescinde dai confini territoriali degli Stati e che rende le economie nazionali sempre più interdipendenti. I comportamenti socialmente rilevanti posti in essere in contesti locali producono effetti a distanza; l’appartenenza di un individuo a un dato ordinamento territoriale perde rilevanza; ora la globalizzazione “obbliga” a contatti transnazionali con istituzioni e regole non apparentemente connesse al territorio.
Il mercato e l’economia si destrutturano e, soprattutto, si depoliticizzano, svuotando il relativo contenuto delle sovranità statali. Quello che si osserva è una crescente asimmetria tra la dimensione globale dei fenomeni economici e una dimensione tradizionalmente nazionale della regolazione. A tale contrazione del ruolo degli Stati si affianca il subentrare almeno parziale di soggetti prima sconosciuti, in qualità di policymaker a livello sovranazionale. Le nazioni si sono dunque lasciate “declassare” a co-produttrici di diritto, sebbene le regole che scaturiscono da questi nuovi soggetti non abbiano lo stesso carattere vincolante delle leggi statali ma assumano carattere di soft law, con un effetto tuttavia altamente conformante tra gli operatori. La sovranità dunque, pur rimanendo indivisibile, subisce e accoglie influenze da altri policymaker, come le aziende multinazionali, agenzie di rating, ONG e istituzioni sovranazionali, sui quali il controllo statale è – anche volontariamente – scarso e inefficace.
Il rapporto tra Stato e mercato subisce quindi un’inversione, e parte del potere contrattuale si trasferisce dal primo al secondo, cambiando così le regole del gioco. La questione principale tuttavia è che a tale trasferimento di potere non corrisponde l’emersione di un nuovo ente sovrano, di una figura che raccoglie a sé le prerogative che ora gli Stati concedono ai nuovi attori.
I nuovi policymaker presentano un deficit democratico rilevante, non essendo istituti a carattere rappresentativo. Le regole che producono mancano di trasparenza e le asimmetrie informative a loro favore sono altissime, con la conseguenza di una scarsa responsabilizzazione di tali soggetti e un pericoloso difetto di accountability.
Le tendenze politiche nazionalistiche e di chiusura che prendono piede negli Stati occidentali cadono in forte contraddizione con tali tendenze della globalizzazione. I suoi fenomeni hanno una natura pressoché irreversibile, salvo violenti sconvolgimenti, ed un ritorno ai nazionalismi non farebbe altro che aumentare le frizioni, essendo tali processi ormai fuori dal controllo delle sovranità statali.
La centralità del tema è emersa anche nell’ultimo meeting dei leader mondiali a Davos, organizzato come ogni anno dal World Economic Forum, dove è accaduto qualcosa di particolare. A decantare le lodi della globalizzazione è stato infatti Xi Jinping, primo leader della Cina a partecipare al forum, il quale ha parlato di liberalizzazione del commercio, di libera circolazione dei capitali, di progresso e di condivisione di valori. E questo non senza stupore di chi ascoltava: una mossa piuttosto inaspettata da parte del rappresentante di un Paese dove la tutela dei diritti umani è negata e dove gli imprenditori devono ottenere l’autorizzazione del governo per avviare grosse operazioni finanziarie.
Non bisogna tuttavia dimenticare che politica, commercio ed economia viaggiano su binari diversi. La Cina soffre una crisi di sovrapproduzione interna, e rischia l’implosione se le sue merci non potessero viaggiare liberamente verso mercati pronti ad assorbirle. La liberalizzazione del commercio serve a Xi Jinping per una ragione economica più che ideologica, e un eventuale protezionismo americano fa paura. La ragione politica invece risiede nell’aspirazione cinese di diventare un punto di riferimento per il mercato globale, magari spodestando l’egemonia statunitense nel controllo dei mercati globali. Un elemento a dimostrazione che non saranno le politiche illiberali a fermare la globalizzazione.
L’unica via per recuperare il controllo della politica sui fenomeni descritti non può che essere uno spostamento verso l’alto di tale sovranità, almeno in parte, e un rafforzamento del diritto internazionale e delle sedi istituzionali comunitarie. Ciò permette di recuperare, almeno in parte, quel deficit democratico che caratterizza il governo di buona parte dei fenomeni della globalizzazione.
di Leonardo Stiz