Cosa si è detto al summit europeo di Malta sull’immigrazione

Yara Nardi/EPA]
Il nuovo piano per l’immigrazione presentato al summit europeo di Malta è un riflesso dei problemi di governance che attanagliano l’Unione Europea. L’accordo è gradito da tutti, poiché a nessuno è richiesto d’impegnarsi davvero.

Lo scorso 25 gennaio, tramite il Press Release Database della Commissione Europea, sono stati anticipati i tratti salienti del piano sull’immigrazione che l’Ue, nelle persone di Dimitri Avramopoulos e Federica Mogherini, rispettivamente Commissario europeo per le migrazioni e Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza, ha presentato ai capi di stato e di governo riunitisi in occasione del summit di Malta.

Il programma, che si dichiara concreto e onnicomprensivo, prevede un iniziale stanziamento di 200 milioni di euro, presi dal Fondo fiduciario europeo d’emergenza per l’Africa, per sostenere il governo libico – nella fattispecie quello riconosciuto dall’Onu di Fayez al-Sarraj – nello sforzo di sorvegliare le frontiere interne del paese e limitare il transito dei flussi migratori.

Con questi fondi si prevede di equipaggiare, addestrare e mantenere le forze della Guardia costiera libica, finanziare il pattugliamento delle frontiere meridionali, creare un “Seahorse Mediterranean Network” per il coordinamento delle attività – a cui parteciperanno Cipro, Francia, Grecia, Italia, Portogallo, Spagna, Algeria, Egitto, Tunisia, Europol, Interpol, Eunavformed e Frontex – favorire e mantenere il rispetto dei diritti umani nei centri detentivi libici e promuovere accordi con i paesi confinanti per il controllo dei varchi di confine.

summit europeo di Malta
Da sinistra, il Primo Ministro di Malta Jospeh Muscat, Il Presidente del Consiglio europeo Donald Tusk e il Presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker, durante una delle conferenze stampa tenutesi a la Valletta il 3 Febbraio 2017 – credits to MATTHEW MIRABELLI/AFP/Getty Images

Il 2 febbraio, per saldare questa rinnovata collaborazione, al-Sarraj e Gentiloni hanno firmato a Roma un memorandum triennale che prevede un maggiore livello di cooperazione multidimensionale tra Italia e Libia, un rafforzamento delle frontiere e il massimo impegno nella lotta al traffico di esseri umani e all’immigrazione illegale.

Dall’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr) e dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) sono poi giunti degli appelli ai leader europei affinché si intraprendano azioni decisive per scongiurare ulteriori tragedie nel Mediterraneo centrale.

Il giorno seguente, in data 3 febbraio, al vertice informale tenutosi alla Valletta, Malta, il piano, com’era prevedibile, ha subito ottenuto il plauso dei capi di governo e Gentiloni ha ricevuto le congratulazioni da parte di Juncker, Tusk e Tajani per questo grande passo verso la risoluzione della crisi mediterranea.

Dalle varie opposizioni politiche si è levato un silenzio d’indifferenza tipico di quegli scenari che non vengono stravolti dalle regole del gioco, qualunque esse siano, mentre le testate giornalistiche si sono perlopiù limitate ad un’esposizione lineare dei fatti. Ogni argomentazione contraria parrebbe in qualche modo rompere l’incanto dell’intesa, ma ad una più approfondita analisi dei numeri, la situazione appare ben diversa da come viene descritta nelle gongolanti dichiarazioni dei leader politici.

Le rotte migratorie africane che usano la Libia come pericoloso trampolino di lancio per giungere in Europa / via Wall Street Journal

Anzitutto, 200 milioni di euro – Serraj sperava molti di più – per arginare un’economia criminale che vale miliardi, sono troppo pochi per fare la differenza, anche se sommati a quelli già stanziati e agli eventuali contributi futuri. Ogni migrante spende dai 2.500 agli 8.000 dollari – a seconda del paese di provenienza, della stagione e dell’organizzazione criminale di riferimento – per affrontare il viaggio della speranza verso le coste europee.

Dal 2015 si sono registrati più di un milione di sbarchi lungo le coste settentrionali del Mediterraneo – 850.000 soltanto in Grecia – e un numero imprecisato di migranti è in attesa di partire dalla Libia. A questi vanno sommati quanti sono in procinto di partire dai rispettivi paesi d’origine dell’Africa centro-orientale e centro-occidentale, e qui si parla di cifre da capogiro.

Un rapido calcolo, seppur forfettario, permette di comprendere l’entità del fenomeno. Il traffico di esseri umani è un business dal valore inestimabile che coinvolge organizzazioni malavitose a vocazione transnazionale, diaspore, gruppi paramilitari privati e funzionari corrotti o corrompibili di tutti i paesi attraverso i quali scorrono le vie di transito della tratta. Le precarie condizioni economiche della Libia esacerbano il problema, acuendo i fenomeni corruttivi e limitando, per evidenti motivi logistici, un’eventuale gestione dei flussi. Per affrontare efficacemente la situazione, è evidente, occorrono misure ben più incisive e strutturali di quelle promosse finora dalle istituzioni europee.

In secondo luogo, 200 milioni di euro paiono poca cosa anche se relazionati al costo dei mezzi navali – si pensi che un pattugliatore moderno può arrivare a costare diverse centinaia di milioni di euro –, del relativo personale, dell’addestramento alle pratiche di soccorso e della manutenzione.

Il pattugliatore Cigala Fulgosi della Marina Militare – credit to: Armando Mancini / armandomancini.it

Finanziare la guardia costiera di un paese vessato come la Libia con fondi tanto miseri è come entrare in gioielleria e pretendere un orologio di lusso sventolando un paio di banconote da 5€. Come se non bastasse, nel budget devono rientrare le spese per il pattugliamento del “Southern libyan border”, un confine prevalentemente desertico, scarsamente popolato, controllato in parte da tribù tuareg, lungo circa 1.500 chilometri e privo di strade asfaltate. Per poter realisticamente parlare di sorveglianza sul fronte meridionale servirebbero miliardi, non milioni.

Se le difficoltà si limitassero a questo, sarebbe sufficiente innalzare il monte spese a cifre più ragionevoli, ma la problematica vera è un’altra. La Libia è uno stato fallito, (ne abbiamo parlato qui e qui) spaccata a metà tra il governo di Tripoli di al-Serraj, riconosciuto dall’Onu e dai paesi occidentali, e quello di Tobruk, nella Cirenaica, retto dal Generale Khalifa Haftar e dalle sue milizie. Sebbene i due siano legati da un accordo di unità nazionale, proposto dall’inviato delle Nazioni Unite Bernardino León nel 2015, le carte non sono ancora state ratificate dalle istituzioni parlamentari e il governo di Tobruk opera in modo sostanzialmente autonomo sul proprio territorio, forte peraltro dell’appoggio – finanziario, logistico, istituzionale e diplomatico – di Mosca, dell’Egitto ed Emirati.

Già in gennaio, Haftar si è detto contrario a qualsiasi accordo che non contemplasse il ruolo centrale nella nuova Libia suo e delle sue milizie. La realtà è che Tobruk auspica da tempo un dialogo con l’Italia, nonché l’avvio di un tavolo negoziale che comprenda tutte le parti in causa, comprese le comunità tribali e di etnia tuareg. Haftar ha di fatto l’obiettivo di diventare il nuovo Questo passo sarebbe necessario per ripristinare gli assetti istituzionali libici, ma ad oggi le richieste non sono state recepite e l’Unione Europea, pressata dal “legittimo” governo di al-Serraj, si ostina a non considerare Tobruk come un soggetto alla pari, malgrado sia de facto più influente e organizzato di Tripoli. Tobruk detiene il controllo di una porzione di territorio ben più ampia di quella del suo antagonista occidentale, compresa peraltro tutta quella frontiera meridionale a cui si fa riferimento nel piano sull’immigrazione dell’Unione Europea. Basta gettare uno sguardo alle carte geografiche per accorgersi che l’accordo siglato con al-Sarray riguarda territori da lui non controllati. Inoltre, quando nel piano si fa riferimento alla “Libyan Coast Guard”, la guardia costiera libica, non si fa menzione del governo di Tobruk, sulle cui acque Tripoli è ufficialmente priva di giurisdizione. Lo stesso vale per il pattugliamento della frontiera meridionale, per il quale si dovrebbe in realtà interloquire con Haftar piuttosto che con al-Serraj, oltre a recepire le istanze delle rappresentanze tribali delle regioni meridionali, cosa che invece non è stata fatta. In buona sostanza, l’accordo non è stato raggiunto con la “Libyan authority”, come si afferma nel documento, ma solo con una piccola parte di essa. Ciò a cui si fa oggi riferimento con il termine Libia, nei fatti non esiste.

Come se tutto questo non fosse sufficiente a far sorgere dei dubbi riguardo l’efficacia dell’accordo, va fatta infine un’ultima puntualizzazione. Considerando che i 200 milioni di euro previsti dal piano sono presi dal fondo fiduciario europeo d’emergenza per l’Africa e che per non ledere la sensibilità nazionale di Tripoli si sono scartate a prescindere tutte le opzioni che prefiguravano un intervento diretto sul territorio, il piano rappresenta una soluzione a costo zero per i paesi europei. Questo da una parte parrebbe una cosa positiva, ma fa sorgere dei dubbi circa la reale volontà d’intervenire. Non c’è dunque da sorprendersi se il piano sia gradito da tutti, dato che a nessuno è richiesto di impegnarsi davvero.

Ricapitolando, il piano sull’immigrazione approvato al summit europeo di Malta dai capi di governo prevede un iniziale stanziamento di 200 milioni di euro da riversare nelle casse di uno stato fallito che detiene il controllo di una porzione di territorio libico inferiore al 40 per cento per finanziare operazioni che costerebbero cento volte tanto e porre fine a un fenomeno che solo attraverso misure strutturali ben più variegate e un dialogo che coinvolga tutte le parti in causa sarebbe pensabile gestire. Buona fortuna.

di Francesco Balucani