L’attacco chimico al sarin su Khan Sheikhoun e l’intervento americano conseguente hanno segnato un evento spartiacque nelle dinamiche e nei rapporti di forza del conflitto siriano. Ecco cosa è successo, perché e che ripercussioni può avere.
All’alba del 4 aprile 2017, Khan Sheikhoun (Idlib) si è svegliata con un attacco chimico al gas nervino sarin che ha provocato oltre 80 morti, tra cui almeno 11 bambini e oltre 300 intossicati, portati in quattro ospedali e in parte evacuati in Turchia (per un rapporto sull’attacco clicca qui).
Subito dopo l’attacco chimico, avvenuto con ordigni sganciati da velivoli militari, i bombardamenti aerei hanno colpito gli stessi ospedali e il centro della Protezione Civile Siriana (qui il comunicato). Le analisi condotte sui campioni biologici delle vittime portate in Turchia hanno confermato la presenza di gas nervino sarin. L’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche (OPAC) ha annunciato di aver iniziato le indagini.
Alcune vittime dell’attacco al sarin curate in ospedali di fortuna, 4/4/2017.
Per giustificare l’attacco, la Russia (e non il regime siriano) si è affrettata a spiegare che il rilascio del gas sarin è stato dovuto a un bombardamento dell’aviazione siriana su un deposito di gas nervino dei ribelli. Una tesi irrealistica e facilmente confutabile: il gas nervino sarin, proprio perché letale, non è un composto pronto all’uso, ma come spiegano gli esperti necessita di un reagente di attivazione, di un precursore che lo renda utilizzabile. Anche se un deposito di questo gas venisse colpito, il gas in questione non avrebbe effetti letali. Dal momento che solo il regime siriano possiede ancora scorte di sarin, nonché i mezzi, le attrezzature e il personale specializzato a maneggiare l’arma (e che solo aerei siriani erano in volo su Khan Sheikhoun in quelle ore) le responsabilità sembrano piuttosto evidenti. Inoltre, se anche si volesse prendere per vera la tesi russa, si tratterebbe comunque di un crimine di guerra, perché colpire un deposito di armi letali causandone l’esplosione in zone abitate da civili sarebbe un attacco indiscriminato che violerebbe i principi base del diritto internazionale, a cominciare da quelli di proporzione, distinzione e precauzione.
Perché l’attacco chimico, e perché su Idlib?
Ci si potrebbe chiedere perché il regime di Assad avrebbe dovuto ricorrere al sarin ora che la guerra sta volgendo in suo favore. Il motivo non è tanto militare – anche se potrebbe essere una rappresaglia per l’offensiva lanciata nei giorni scorsi dai ribelli su Hama – quanto politico: è un messaggio al suo alleato russo. Idlib è l’ultima roccaforte (un intero governatorato) dei ribelli, sia quelli più moderati che quelli islamisti che quelli di Nusra, dove il regime ha deportato in massa anche la popolazione civile delle zone riconquistate nei mesi scorsi, compresa la totalità della popolazione di Aleppo est, in quella che l’ONU ha accertato essersi trattato del crimine di guerra di trasferimento forzoso della popolazione civile. Proprio perché il regime è sostenuto e protetto da potenti alleati, le sue ambizioni militari vanno oltre la messa in sicurezza della “Siria utile”, ossia della fascia costiera e dell’asse Damasco-Aleppo, estendendosi sino alla provincia di Idlib. L’attacco chimico su Idlib è un messaggio politico per Mosca che palesa l’intenzione di volersi riprendere con ogni mezzo l’intero governatorato, a costo di sterminare la sua popolazione civile e anche ricorrendo ad armi chimiche, con la pretesa che l’alleato russo lo giustifichi e sostenga. Cosa avvenuta con successo, perché Mosca non solo ha ideato in fretta e furia una tesi, seppur fantasiosa e inverosimile, che nega la reale dinamica dell’attacco, ma ha anche rinnovato il suo sostegno al regime siriano.
Perché il contro-attacco americano?
La gravità di questo crimine di guerra ha rimescolato le carte del conflitto siriano portando ad un’azione militare americana senza precedenti contro le forze armate siriane: nelle prime ore del 7 aprile, 59 missili crociera Tomahawk sono stati lanciati da una nave da guerra americana contro la base aerea di al Shayrat, nella provincia di Homs, da dove partono gli aerei siriani con il loro carico di armi chimiche. Non tutti i missili però hanno raggiunto l’obiettivo, tanto che già l’8 aprile caccia siriani hanno ripreso a decollare dalla base.
La decisione di Trump non è dovuta a un’improvviso senso di pietà suscitato dalle foto di quei bambini agonizzanti, dopo sei anni di atrocità in Siria e dopo le ripetute dichiarazioni circa l’inevitabilità di accettare Assad al potere in nome della lotta all’ISIS. Le chiavi di lettura che possono spiegare il cambio di rotta di Trump sono molteplici. Innanzitutto, il calcolo politico di volersi presentare come Presidente migliore di Obama e di voler dimostrare che gli Stati Uniti sono ancora un attore decisivo nel conflitto siriano, dopo anni di politiche ambigue e di disimpegno in Medioriente sotto l’amministrazione Obama. Nel 2013, Obama minacciò un intervento militare contro il regime se quest’ultimo avesse superato la “linea rossa” dell’uso di armi chimiche, che venne superata con l’attacco al sarin sulla Ghouta orientale (Damasco) del 21 agosto 2013, in cui morirono 1,400 persone, tra cui 400 bambini. Obama non diede seguito alla sua stessa minaccia: un accordo con la Russia costrinse Damasco ad accettare lo smantellamento del suo arsenale chimico (ancora non del tutto distrutto) e Obama perse la sua credibilità. La decisione di Trump, dunque, vuole dimostrare che sotto la sua amministrazione gli Stati Uniti sanno agire per reprimere determinate minacce dimostrando di essere ancora un attore credibile: aver riproposto la linea rossa delle armi chimiche, e averne “punito” la violazione da parte del regime siriano, pone gli Stati Uniti in una posizione di forza. Si tratta in secondo luogo di un altro messaggio politico: al regime siriano e alla Russia circa il ruolo degli Stati Uniti nel conflitto; all’Iran come avvertimento contro la sua espansione ed “iranizzazione” della Siria; alla Corea del Nord come avvertimento contro il suo programma nucleare (tanto che Trump ha inviato navi da guerra verso la penisola coreana); a Israele, per rassicurarla contro le minacce chimiche del suo vicino siriano.
Israele ricopre un ruolo centrale nella recente evoluzione del conflitto. È dal 2013 che jet israeliani, di tanto in tanto, effettuano delle sortite in territorio siriano per distruggere veicoli che trasportano armi per Hezbollah, ma fino al mese scorso non c’era mai stata alcuna reazione da parte del regime siriano. Nella notte tra il 16 e il 17 marzo, invece, la contraerea siriana ha sparato per la prima volta a una formazione di caccia israeliani che rientravano dopo un bombardamento a un convoglio di Hezbollah. Israele ha intercettato l’attacco e abbattuto in aria almeno un missile siriano. Abbiamo analizzato qui le recenti tensioni tra Israele e Siria ed è anche in questo quadro che si inserisce l’azione americana e la sua immediata approvazione da parte israeliana: l’arsenale chimico siriano, ancora attivo e pronto all’uso, come dimostrato dall’attacco su Khan Sheykoun, e l’avanzata iraniana in Siria sono motivi di crescente preoccupazione sia per Israele che per gli USA di Trump.
Cosa aspettarsi.
Le tensioni tra USA e Russia sono già alle stelle, almeno formalmente. La Russia ha inviato altre navi da guerra in Siria e interrotto il canale di comunicazione tra le intelligence dei due Paesi circa le loro operazioni in Siria che era stato attivato per evitare incidenti, mentre l’ambasciatrice USA all’ONU ha dichiarato che gli USA sono pronti “a fare di più” se necessario.
Al di là delle parole, però, l’attacco americano è stato un attacco mirato, circoscritto e ha colpito un obiettivo militare, tra l’altro quello da cui partono gli attacchi chimici: è infatti stato giustificato dal Pentagono come una singola azione in risposta a uno specifico crimine di guerra, e non come un’azione volta alla rimozione di Assad o a una dichiarazione di guerra (anche se le parole dell’ambasciatrice USA all’ONU Nikki Haley alla CNN circa il fatto che ormai la rimozione di Assad è inevitabile e che rientra tra le priorità degli Stati Uniti sembrano indicare un’altra cosa). Inoltre, l’attacco è stato sferrato dopo aver preso le dovute misure precauzionali, cioè dopo aver avvertito i russi (e quindi i siriani) dando il tempo di evacuare la base, cosa effettivamente avvenuta con l’evacuazione di tutto il personale russo (nda: se c’era personale militare russo nella base da dove aerei siriani carichi di bombe chimiche partivano per i loro raid, la Russia doveva verosimilmente sapere dell’uso di tali armi e, in quanto potenza garante del rispetto della Convenzione ONU contro le armi chimiche da parte della Siria ratificata nel 2013 come parte dell’accordo per smantellare l’arsenale chimico siriano, avrebbe anche fallito nel far rispettare alla Siria l’accordo raggiunto) e con il trasferimento preventivo di alcuni aerei siriani prima dell’attacco. Tuttavia, 7 persone, tra cui 4 bambini, avrebbero perso la vita secondo fonti militari siriane.
Il rischio di un’escalation, anche militare, esiste, non solo perché la Russia sta già dispiegando navi da guerra e potenziando il sistema di difesa missilistica in Siria, annunciando in un comunicato congiunto con l’Iran che d’ora in poi qualunque altro attacco comporterà risposte militari, ma anche perché l’attacco americano segna un punto di non ritorno: se la linea rossa delle armi chimiche dovesse essere di nuovo varcata, sarà difficile per Trump non reagire di nuovo. Trump ha anche dichiarato che l’attacco al sarin “ha superato molte linee rosse”. Inoltre, i Paesi occidentali hanno accolto con favore l’intervento americano, così come hanno fatto Turchia e Paesi del Golfo, che hanno rinnovato la necessità di rimuovere Assad dal potere, quindi non è da escludere un maggiore impegno anche da parte di altri Paesi.
Oggi e domani il Segretario di Stato americano Tillerson sarà a Mosca per un incontro con la sua controparte russa. Le prossime settimane saranno decisive per il futuro corso del conflitto siriano.
di Samantha Falciatori