Mentre è in corso all’ Avana il dialogo di pace tra i rappresentanti del Governo colombiano e i delegati delle Farc (Fuerzas Armadas Revolucionarias Colombianas), a Bogotà si riuniscono le comunità indigene provenienti da tutto il Paese: prospettive e criticità del processo di pace.
102 popolazioni a confronto: comunità provenienti dalle regioni andine, comunità afro-colombiane, comunità amazzoniche, comunità caraibiche e del Pacifico. Partecipano all’Assemblea anche il Ministro degli Interni, Juan Fernando Cristo Bustos, alcuni rappresentanti delle Nazioni Unite e alcune forze politiche progressiste oltre ad associazioni politiche rurali e organizzazioni non governative.
L’obiettivo del Foro Nacional de Paz de los Pueblos Indigenas, tenutosi al Centro Gabriel Garcia Marquez a Bogotà tra il 12 e il 13 Febbraio 2015, è di superare i particolarismi delle diverse comunità indigene ed elaborare una strategia comune, tale da definire un’agenda di pace da sottoporre al Paese.
L’esigenza di proporre un proprio progetto deriva dalla marginalità cui sono relegate le comunità indigene dinanzi al principale negoziato; pur essendo le stesse, le principali vittime del conflitto se si considerano gli omicidi, le rimozioni forzate (desplazamientos) e le ripetute privazioni del loro principale bene comune: la terra.
Le Nazioni Unite stimano che nel 2014, un sesto dei leader assassinati fossero esponenti delle comunità indigene, pur non essendo questi coinvolti direttamente nel conflitto. Il 60% delle comunità vive in estrema povertà e i tassi di mortalità infantile registrati presso di loro, sono tra i più rilevanti del Paese. Delle 102 comunità indigene, circa 31 sono attualmente a rischio estinzione. Le difficili condizioni di vita e la marginalizzazione da parte dello Stato, rende tanto più necessario l’idea di riunirsi e di costruire una proposta all’insegna dell’unità nella diversità.
La buona dose di determinazione e di volontà politica mostrata sinora da entrambi gli attori principali (insorgenza e Stato colombiano) rendono sempre più concreta la possibilità di raggiungere un accordo a breve termine. Il 2015 è considerato da molti, come l’anno dell’auspicata svolta nella risoluzione del conflitto; eppure questo preoccupa le comunità, poiché le decisioni prese all’Avana avranno un impatto rilevante sulla vita delle popolazioni indigene. E il rischio oltre alla paura di rimanere fuori dai giochi spinge il movimento, riunito sotto la Organizaciòn Nacional Indigenas de Colombia (O.N.I.C.), a presentare un progetto comune al Paese, che tenga in considerazione le principali istanze manifestate delle diverse comunità.
Secondo Luis Fernando Arias Arias (Consigliere della O.N.I.C.) all’Avana non si discute tanto di come costruire la pace in Colombia; al momento, le trattative dimostrano solo la volontà di raggiungere un accordo tra la guerriglia e il Governo colombiano. Così facendo però rimangono esclusi importanti settori della società civile, tra cui anche le popolazioni indigene e questo di per sé costituisce l’ostacolo maggiore alla risoluzione del logorante conflitto. Senza il coinvolgimento di tutte le forze in campo, la pace resta una chimera.
Inoltre la maggioranza dei rappresentanti presenti al forum, teme che quanto deciso all’Avana, possa avere delle ripercussioni negative sulla vita delle comunità; non solo, si corre il rischio di vedere dissolti i pochi progressi compiuti negli ultimi anni, a seguito delle grandi mobilitazioni del Paro Nacional Agrario del 2013 e la Cumbre Agraria del 2014.
Una vera pace sociale, ma anche spirituale, nel rispetto della Madre Terra, passa necessariamente dalla risoluzione dei conflitti territoriali. In Colombia uscire sconfitti dalla lotta per le risorse – la terra – significa non avere di che vivere e quindi morire.
Non basterà la firma di un accordo – peraltro non inclusivo – a ridurre la forbice sociale. Nonostante i progressi ottenuti nella trattativa di pace, in Colombia né il Governo né la guerriglia intendono affrontare la questione della proprietà della terra sottratta alle comunità indigene; una delle principali cause di questo interminabile conflitto.
Una riforma agraria capace di garantire maggiori opportunità per tutti e una sorta di compensazione per le vittime del conflitto, potrebbero essere misure già sufficienti; aiuterebbero, nel graduale e doloroso reinserimento, delle popolazioni emarginate, all’interno del tessuto sociale colombiano. In Colombia (ma d’altronde anche in altri paesi dell’America Latina) la questione della terra è la frattura storica, tutt’ora non ricomposta su cui si divide la società.
La possibilità, che poi è un sogno, che i terreni ancestrali vengano redistribuiti alle comunità indigene, si scontra inevitabilmente con la realtà, caratterizzata da scottanti questioni di politica commerciale internazionale e da decenni di politiche pubbliche inadeguate e implementate da governi di diverso orientamento. Buona parte dei terreni indigeni sono stati oggetto di concessioni e royalties a compagnie nazionali e multinazionali del settore agro-industriale, industrie estrattive di miniere e idrocarburi. In tutta evidenza sono proprio gli interessi delle comunità indigene a sparire di fronte allo sfruttamento intensivo del territorio da parte di colossi cui sembra impossibile contrapporsi.
La natura non inclusiva del dibattito in corso all’Avana è dimostrata anche dal fatto che le operazioni militari tuttora in corso da parte di E.l.n. (Ejército de Liberaciòn Nacional) e altri corpi militari e paramilitari, non vengono nemmeno considerate. Lo scetticismo delle comunità indigene è motivato anche dall’atteggiamento contraddittorio mostrato dai diversi rappresentanti del Governo dinanzi ad alcuni punti già approvati in agenda; espressione di politiche pubbliche ritenute fondamentali per il raggiungimento della pace. Come spesso accade, alle parole non seguono i fatti. La volontà politica mostrata davanti alle televisioni e sui media in generale, non si traduce nei necessari decreti legislativi.
Il timore, è che il Governo abbia un’agenda segreta da perseguire: da una parte procedono le trattative all’Avana, (i rappresentanti dell’esecutivo pur di raggiungere un compromesso politico e storico con le F.a.r.c., sembrano disposti a cedere su alcune richieste simboliche), mentre dall’altra l’attività legislativa in materia politico-economica prosegue senza che venga effettuato alcuno sforzo per intervenire sul principale oggetto del contendere nel Paese. Non esiste alcun testo legislativo che affronti seriamente la questione della terra, né tanto meno s’intravede in lontananza un cambiamento che vada in questa direzione.
Il Presidente Santos ha sicuramente intrapreso con determinazione un cammino ambizioso (in termini di capitale politico speso per il raggiungimento di un accordo con la guerriglia), ma il sentiero imboccato potrebbe essere altrettanto pieno d’insidie qualora, il capo dello stato non si rivelasse all’altezza di dare una risposta a cambiamenti strutturali necessari, che da troppi anni la classe politica colombiana sceglie di ignorare. L’eventuale fallimento del negoziato segnerebbe, di fatto, l’esaurimento di quel capitale politico guadagnato con la vittoria al ballottaggio del Giugno del 2014, in buona parte grazie ai voti dei partiti politici progressisti.
D’altra parte, come dimostrano altri paesi dell’America Latina, la stabilizzazione della Colombia passa per la creazione di un’Assemblea Costituente, dotata di un adeguato mandato politico per la trasformazione del Paese e di un sufficiente grado di legittimità, assicurato da una forte partecipazione delle diverse organizzazioni politico-sociali (urbana e rurale) presenti nel Paese. Secondo Ivàn Castro (Polo Democrático Alternativo), il vero problema non è tanto porre fine alle operazioni belliche, ma analizzare e risolvere le cause che hanno fatto sussistere il conflitto per oltre cinquant’anni.
La Senatrice Claudia Lopez (Alianza Verde) condivide le perplessità espresse dalle comunità indigene, sostenendo che anche se si dovesse raggiungere un accordo di pace, questo avrebbe un impatto limitato sulle dinamiche politico-sociali del Paese. Un eventuale accordo sarebbe condizionato da una correlazione di forze asimmetrica e tutto ciò non assicurerebbe l’implementazione delle riforme strutturali necessarie.
L’unico risultato auspicabile al momento è che si ponga fine alla belligeranza: obiettivo non di poco conto, ma non esclusivo e di certo non risolutorio se lo scopo è quello di ‘pacificare’ la Colombia, superando le reali cause del conflitto. Una pace duratura è possibile solo se tutte le forze democratiche del Paese saranno coinvolte; le comunità indigene ad esempio, non hanno delegazioni all’Avana poiché non figurano, se non come vittime, tra gli attori principali del conflitto. Eppure il 30% del territorio indigeno ha sofferto le conseguenze della guerra.
Il fine ultimo del Foro è pertanto quello di far emergere, dal fronte compatto dei movimenti indigeni, un’ alternativa credibile da presentare al tavolo delle trattative in corso all’Avana. Una proposta politica proveniente direttamente da quanti pagano sul territorio, le conseguenze del conflitto.
Il programma del foro pertanto si propone di costruire un piano d’azione comune, attraverso il dialogo tra le diverse voci presenti all’interno della società rurale e periferica colombiana. Un programma in cui la proposta politica e l’azione coesistano, poiché l’azione senza la parola risulta vuota di contenuti politici mentre la parola senza l’azione è cieca.
L’agenda presentata è ricca di contenuti che rappresenteranno le sfide che questa parte del Paese è pronta ad affrontare. All’agenda politica s’integrano una serie d’ iniziative e di mobilitazioni nei territori indigeni, ma anche nelle principali città del Paese. La prima mobilitazione, prevista per il 9 di Aprile 2015 (anniversario dell’omicidio di Jorge Eliécer Gaitan e al tempo stesso causa del Bogotazo) richiederà l’inizio di un cessate-il-fuoco bilaterale all’interno dei territori ancestrali. Da oltre quasi due mesi infatti è in vigore un cessate-il-fuoco unilaterale dichiarato dalle F.a.r.c., a cui non ha ancora fatto seguito, la fine delle ostilità da parte di altri gruppi (militari, paramilitari e E.l.n.)
Tra i principali punti emersi, sarà centrale: 1) il ruolo svolto dall’autodeterminazione dei popoli indigeni, all’insegna dell’autonomia territoriale e di una diversa ripartizione della terra; la configurazione di un nuovo modello di sviluppo economico e sociale che preveda un maggior rispetto dell’ambiente. 2) Una partecipazione politica interculturale che tenga conto delle diverse realtà etniche e sociali del Paese. 3) La garanzia del rispetto del Diritto Internazionale Umanitario e dei Diritti delle Popolazioni e dei Territori Indigeni, così come previsto dalla Carta delle Nazioni Unite. 4) Una sostanziale differenziazione politica tra il narco-traffico e la valorizzazione culturale dell’uso ancestrale delle piante. 5) Verità, Giustizia e Indennizzo integrale nei confronti dei Popoli Indigeni, quali principali vittime del conflitto.
Il Foro Nazionale di Pace dei Popoli Indigeni della Colombia si conclude con un rituale ancestrale di armonizzazione con la Madre Terra e l’inizio della campagna ‘Porta il bastone della pace per tutta la Colombia’, con l’obiettivo dichiarato di voler sostituire i bastoni tradizionali delle popolazioni indigene ai fucili ancora saldamente in mano delle forze belligeranti e di diffondere la presenza delle Guardie Indigene per la salvaguardia dei territori ancestrali del Paese grazie alla promozione dei valori a cui si richiama la resistenza non-violenta.
Tuttavia, proprio mentre si pronuncia la fatidica parola ‘pace’ in un contesto di armonia generale, un rappresentante delle comunità del Nord del Cauca comunica l’assassinio di tre comuneros della regione e la sparizione di alcuni contadini. Pochi giorni prima, quattro fratelli di 4, 10, 14 e 17 anni venivano assassinati per mano di alcuni sicari nella regione meridionale del Caquetá.
Ulteriore segno che per adesso, in Colombia comandano ancora i fucili e che nessuno sa ancora per quanto sarà così.
Giacomo Finzi