Le potenze mondiali, da tempo, si contendono le costruzione e la gestione dei principali scali globali, la cui posizione strategica può essere considerata favorevole al successivo schieramento di truppe.
La contesa geopolitica per l’affermazione delle prerogative delle medie e grandi potenze sullo scacchiere globale non passa soltanto attraverso la costruzione di eserciti più potenti o di economie più forti, ma anche attraverso la costruzione e la gestione di infrastrutture strategicamente ben posizionate. In questo ambito i porti rappresentano un nuovo terreno di scontro, con gli stati a sostenerne la costruzione e/o ad accaparrarsene la gestione, lungo le principali rotte commerciali e nei pressi di punti strategici.
Uno dei terreni principali di scontro è il Gibuti: il piccolo paese dell’Africa Orientale è finito nelle mire delle principali potenze globali a causa del suo posizionamento geografico, nei pressi dello strategico stretto di Bab el-Mandeb, a metà strada tra l’Africa e l’Asia.
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Diverse potenze straniere hanno installato a Gibuti delle basi militari avanzate: dopo Francia, Stati Uniti e Giappone, nel 2016 è stata la volta della Cina che ha iniziato a Tadjoura la costruzione della prima base permanente all’estero dell’esercito popolare. Ma gli investimenti cinesi si sono concentrati soprattutto sull’aspetto commerciale: China State Construction Engineering Corporation (CSCEC) ha ultimato nel 2017 il porto multi-funzionale di Doraleh, la cui costruzione era iniziata “soltanto” tre anni prima, destinato a diventare la principale piattaforma di scambi commerciali della regione.
Nella vicina Somalia, e precisamente nella regione semi-autonoma del Puntland, P&O Ports, società statale con sede a Dubai, ha annunciato di aver siglato un accordo con le autorità locali per lo sviluppo del porto di Bosaso, situato nei pressi del porto di Aden, per un investimento totale di oltre 300 milioni di dollari. Un’altra società emiratina, la DP World, ha ottenuto lo scorso anno una concessione trentennale, con rinnovi decennali automatici, per la gestione e lo sviluppo del porto multi-funzionale di Berbera, situato nella regione auto-proclamatasi indipendente del Somaliland, per un valore pari a 442 milioni di dollari. La Cina sta invece puntando al porto di Eyl, che permetterebbe di “gestire” anche il problema della pirateria: la China Civil Engineering and Construction Corporation ha ricevuto dal governo del Puntland l’autorizzazione a costruire la strada che collegherebbe Eyl alla capitale del Puntland, Garowe. L’ambizione di Emirati Arabi e Cina si scontra con quella della Turchia, presente nell’area già da diverso tempo: le compagnie turche gestiscono , da tempo, il porto e l’aeroporto della capitale somala Mogadiscio, da cui derivano l’80% delle entrate della Somalia.
La posizione geografica condanna un altro paese, solitamente poco considerato nelle dinamiche politiche internazionali, a diventare un futuro terreno di scontro tra grandi potenze: si tratta dello Sri Lanka, paese che uscito nel 2009 dalla decennale guerra civile che l’ha sconvolto, comincia a beneficiare della sua strategica posizione nell’Oceano Indiano. Gli sforzi per accaparrarsi una piccola porzione di terreno cingalese vedono Giappone, India e Stati Uniti cercare di contrastare l’offensiva cinese, con la preoccupazione che il commercio possa essere utilizzato come una testa di ponte per l’affermazione militare.
Tale preoccupazione ha condotto ognuno di questi paesi ad investire nello sviluppo di strutture portuali: la Cina si è concentrata sul porto di Hambantota, India e Giappone sul porto di Trincomalee, mentre gli Stati Uniti su quello di Jaffna. L’espansione del porto di Hambantota, da parte della Cina, prevede un investimento di 1,4 miliardi di dollari, il più grande mai realizzato nel paese, e comprende anche la creazione di una zona economica speciale, promettendo di dare lavoro ad almeno 80mila persone: il governo cinese, inoltre, cancellerà una parte del debito cingalese nei suoi confronti, ottenendo lo sfruttamento dell’area per 99 anni. Nonostante le proteste della popolazione civile che accusa il governo di svendere il proprio territorio, lo Sri Lanka ha bisogno degli investimenti esteri per ridare nuovo slancio alla propria economia che nel 2016 ha fatto registrare una crescita “solo” del 4,4%.
La principale contesa geopolitica per l’accaparramento di infrastrutture strategicamente rilevanti si sta svolgendo attorno ai porti di Chabahar e Gwadar e vede coinvolti, direttamente, India e Cina. Il porto di Chabahar, situato all’estremità meridionale dell’Iran, all’imbocco del golfo dell’Oman, ha visto gli sforzi congiunti di India, Iran e Afghanistan per la creazione di un hub regionale per il trasporto e la commercializzazione dei loro prodotti, in particolare il petrolio iraniano, verso i mercati europei e mediorientali. Il porto di Gwadar, situato all’estremità meridionale del Pakistan, è uno dei principali progetti di espansione commerciale del governo cinese sin dal 2013, e rappresenta un asset strategico per dare uno “sbocco” sul mare alla regione dello Xinjiang e raggiungere le regioni mediorientali.
La competizione tra questi due porti ha generato un vero e proprio New Great Game, poiché attorno ad essi si muovono le mire espansionistiche delle principali potenze globali e regionali. La motivazione dietro questa nuovo territorio di contesa, soprattutto commerciale, è il progetto cinese del One Belt One Road, che vede nella creazione di un corridoio Cina-Pakistan, con termine a Gwadar, la sua principale componente. Gli Indiani, sostenuti dalla diplomazia statunitense, sono i primi oppositori di questo progetto e hanno profusi i loro sforzi nella costruzione del porto di Chabahar, e nelle infrastrutture ad esso collegate, con la speranza di interrompere i sogni e “bisogni” cinesi di ricostruire l’antica Via della Seta.
Danilo Giordano