Come risolvere la crisi tra Russia e Ucraina? Diplomazia, o impegno diretto della Nato e delle potenze occidentali? Quasi 100 anni fa, qualcuno scelse la seconda opzione. Vediamo con quali risultati.
Aprile 1917. Dopo un avventuroso viaggio attraverso l’Europa in fiamme, Lenin fece ritorno in Russia. Di lì a 6 mesi, con l’ascesa al potere dei socialisti bolscevichi e la cacciata del più moderato governo provvisorio del socialista menscevico Kerenskij (il quale aveva dichiarato di voler proseguire la guerra a fianco delle potenze dell’Intesa), la Russia intavolava formali trattative con tedeschi, austriaci, turchi e bulgari per giungere ad un cessate il fuoco. Il 3 marzo 1918, nei pressi della città bielorussa di Brest-Litovsk, il governo rivoluzionario russo concludeva la pace separata con gli Imperi centrali. Le conseguenze che la firma del trattato provocò a livello di rapporti internazionali furono gravissime. Le potenze dell’Intesa, ancora impegnate in una lotta durissima e preoccupate di un possibile contagio rivoluzionario, considerarono la pace di Brest-Litovsk come un vero e proprio tradimento e, in risposta, cominciarono ad appoggiare concretamente le forze antibolsceviche che andavano organizzandosi in varie zone del paese sotto la guida di ex ufficiali zaristi.
La Gran Bretagna, fu quella che più di tutte si prodigò perché la Controrivoluzione potesse scacciare dal governo il partito bolscevico di Lenin, Kamenev e Trotzkij. Churchill (che considerava la rivoluzione d’ottobre come una catastrofe mondiale), era terrorizzato dall’idea che il marxismo-leninismo potesse attecchire in altri stati europei e perfino in Gran Bretagna, dove esisteva una classe operaia numerosa e consapevole e il cui status di grande potenza, dipendeva direttamente dal mantenimento del vasto impero coloniale. Ecco perché, già dal dicembre ’17, egli accusò pubblicamente i bolscevichi d’aver prolungato la guerra abbandonando al loro destino gli alleati occidentali e indicò la necessità di prendere il controllo dell’immenso mercato russo attraverso importanti operazioni speculative che permettessero l’acquisto di azioni e titoli delle maggiori banche del Paese. Ed ecco perché – arrivando addirittura a promuovere la diffusione di un “Libro Bianco sulle atrocità dei bolscevichi” – il Segretario di Stato per la Guerra del Governo di sua Maestà, fece di tutto per convincere l’opinione pubblica che, per risolvere l’anarchia regnante in Russia, occorreva l’intervento armato delle nazioni occidentali democratiche.
Mentre nel Caucaso, nella regione del Don e nelle immense steppe siberiane l’Armata Rossa e i Controrivoluzionari bianchi, guidati da alti ufficiali di formazione zarista come il Generale Kornilov, il generale Denikin e l’ammiraglio Kolchak, si fronteggiavano in una sanguinosa guerra civile (che si protrarrà, di fatto, per tutto il 1920), tra la primavera e l’estate del 1918 truppe britanniche, francesi, giapponesi, italiane e statunitensi sbarcavano sulle coste settentrionali, orientali e meridionali della Russia con il compito di combattere a fianco delle forze antibolsceviche. A queste, si aggiungevano i Cosacchi del Don dell’ataman Krasnov e, soprattutto, la Legione Cecoslovacca, composta da 40 mila ex prigionieri di guerra e disertori dell’esercito asburgico animati da forte spirito nazionalista e indipendentista. Dopo una serie di importanti successi, che permise loro di occupare gran parte del territorio russo, a partire dall’autunno 1919 le truppe controrivoluzionarie incominciarono a ripiegare in tutti gli scenari sotto la spinta della più grande ed organizzata Armata Rossa, che fino ad allora aveva mantenuto il controllo delle zone industrializzate del Paese. Quando fu chiaro che i bolscevichi avrebbero vinto la partita, ma non sarebbero stati in grado di esportare la loro rivoluzione fuori dai confini della Rodina, le potenze occidentali, già gravate dallo sforzo bellico e desiderose di evitare un nuovo conflitto, si disimpegnarono velocemente abbandonando le armate bianche ad una sicura sconfitta.
La guerra civile si concluse di fatto nel novembre del 1920, quando Mosca festeggiò la propria vittoria su tutti i generali della Guardia Bianca. I danni causati all’economia nazionale russa ammontarono a circa 50 miliardi di rubli-oro. La produzione agricola si ridusse della metà, quella industriale scese al 20% del livello pre-rivoluzionario. I settori riguardanti i combustibili, la metallurgia, le costruzioni meccaniche ed i trasporti erano disastrati. I morti tra la popolazione civile a causa della fame, delle malattie e del terrore scatenato dai rossi e dagli anticomunisti interni ed esterni furono circa 8 milioni. L’Armata Rossa perse un milione di soldati.
«Reazionari per i bolscevichi, patrioti per i legittimisti, i comandanti bianchi della guerra civile», come ebbe modo di scrivere in un suo articolo il giornalista Sergio Romano, «combatterono valorosamente, ma non ebbero mai un vero, coerente programma politico.» Si ostinarono, infatti, a voler ristabilire la grande proprietà terriera, senza mai provare davvero alcun entusiasmo per questa causa. «I loro nemici, che un programma l’avevano, seppero creare dal nulla un’armata composta da cinque milioni di uomini.» Un’armata i cui soldati, di origine proletaria, si battevano contro l’indigenza del ceto rurale, contadino ed operaio di cui essi stessi facevano parte. Questa fu la ragione della loro vittoria.
Stefano Crippa