Un’efficace lotta al terrorismo risulta difficile anche a causa di diverse teorie interpretative adottate dagli Stati sui limiti entro cui tale lotta è legittima. Vi spieghiamo quali sono queste teorie e che implicazioni hanno.
Non vi è dubbio che la lotta al terrorismo sia una delle sfide che attualmente tiene più impegnata la comunità internazionale. Sebbene la portata trasversale del fenomeno lo renda un tema prioritario per le organizzazioni internazionali, quando si tratta di definire le strategie comuni di azione ci sono alcuni elementi cardine per nulla pacifici che rendono improbabile la prospettiva di un accordo completo.
Il terrorismo internazionale è il nemico comune di una comunità di Stati molto vasta, dove alcuni hanno un ruolo di traino, mentre altri, pur non essendo toccati direttamente dal fenomeno, non possono certamente esimersi dal condannarlo. Ci si aspetterebbe dunque, in astratto, che sia agevole raggiungere un consenso su un tema che apparentemente dovrebbe vedere tutti d’accordo. Tuttavia, nella pratica non è così.
L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite vota ogni due anni una risoluzione con la quale aggiorna e rafforza la strategia globale antiterrorismo; lo fa dal 2006, quando fu votata la prima di una serie di risoluzioni sul tema. Il decimo anniversario dalla prima risoluzione e gli attentati in Europa e in Medio Oriente avvenuti nel recente periodo, tra l’altro, hanno reso l’ultimo documento – approvato nell’estate del 2016 – particolarmente importante e simbolico. In sede di negoziazione di tali documenti, tuttavia, raggiungere il consenso non è mai stato particolarmente facile, per via di interpretazioni radicalmente diverse che vari gruppi di Stati danno a concetti di fondo che condizionano profondamente le opinioni circa le modalità di intervento antiterrorismo. Prima tra tutte la questione della sovranità di uno Stato e della sua definizione.
Per combattere nella maniera più diretta il terrorismo, come la storia recente insegna, occorre molto spesso intervenire direttamente nei territori dove esso è radicato, come è successo, e ancora succede, in primis in Medio Oriente. Con riguardo soprattutto a tali interventi, punto focale delle negoziazioni in materia, si scontrano due teorie contrastanti: da una parte coloro che adottano un’interpretazione più restrittiva del concetto di sovranità nazionale, derivante da un’applicazione più letterale della Carta delle Nazioni Unite, secondo cui ogni intervento armato in un altro Stato, anche se ha come bersaglio i cosiddetti “non State actors” come lo sono i gruppi terroristici, è legittimo solo se autorizzato dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU (cosa rarissima) o avviene col consenso dello Stato interessato. Solo in questo modo, secondo questo approccio, si tutela effettivamente la sovranità di uno Stato, i cui poteri possono essere condizionati ed i cui confini attraversati da forze straniere esclusivamente con il consenso dello stesso. Un attacco rivolto a non State actors al di fuori di questi stringenti casi è equiparato ad un attacco nei confronti del Paese che, volente o nolente, li vede operare sul proprio territorio.
Questa posizione, sostenuta fortemente dalla Cina e soprattutto dalla Russia e dal blocco sudamericano che la segue (Cuba, Cile), si scontra con un secondo filone interpretativo adottato in primis da USA e Stati europei, secondo cui la sovranità di un singolo Stato si tutela anche attraverso il diritto di difendersi. Quindi, qualora uno Stato subisca minacce da gruppi terroristici stanziati in un Paese straniero e qualora lo Stato di tale Paese non voglia o non sia in grado di attivarsi in maniera adeguata per eliminare il pericolo, lo Stato minacciato è autorizzato ad intervenire in terra straniera in quanto ente sovrano che come tale può e deve utilizzare la forza per difendere se stesso e i suoi cittadini, secondo il principio di autodifesa anch’esso sancito dalla Carta delle Nazioni Unite.
Tutto ciò, in pratica, si traduce nel fatto che il primo blocco di Paesi, nell’affermare l’inviolabilità della sovranità dei singoli Stati, si opponga tendenzialmente, nelle risoluzioni da adottare, a qualsiasi possibile accenno che indichi anche solo una lieve predominanza dell’interesse collettivo su quello nazionale, affermando spesso che ogni definizione o concetto richiamato vada modulato e reinterpretato in base ai singoli contesti statali. E questo anche per quanto riguarda i concetti più fondamentali, da quello dei diritti umani a quello della società civile, da quello dello stato di diritto a quello del giusto processo, per i quali vengono fortemente contestate accezioni standardizzate valide per tutti, a sostegno invece di una modulazione particolare nel contesto del singolo Paese. Dall’altra parte, il secondo blocco di Paesi sostiene linguaggi che danno più peso all’interesse collettivo e che, al contrario, internazionalizzano e standardizzano i concetti fondamentali e le definizioni di cui sopra, nonché le pratiche utilizzate in termini di diritti da rispettare e procedure da osservare.
Nel contesto della strategia antiterrorismo che, come detto prima, si basa prevalentemente sulla previsione di interventi concertati nei confronti di gruppi terroristici stanziati in determinati Paesi, è facile dunque capire come tali orientamenti contrastanti rendano estremamente difficile l’elaborazione di una strategia d’azione concordata. E questo anche nel caso delle risoluzioni dell’Assemblea Generale, caratterizzate prevalentemente da linguaggi piuttosto generici e ampi, ma che non di meno celano specifici significati concreti, pratici ed estremamente politicizzati. Naturalmente, da ciò consegue un profondo disaccordo anche sulla qualificazione o meno di terroristi riferita a gruppi come i ribelli siriani, il Pkk curdo (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) o i vari estremismi violenti che si manifestano, nonché sulle interminabili discussioni sull’illegalità o meno degli interventi occidentali in Siria e in altri Stati mediorientali.
di Leonardo Stiz