A un mese dallo scoppio della crisi diplomatica nel Golfo diventa imperativo comprendere le dinamiche e le relazioni che storicamente legano i paesi dell’area tra di loro e contro di loro.
Il 5 giugno scorso, a poca distanza dalla visita di Trump in Medio Oriente che ha riconsolidato i rapporti Washington-Riyadh, un numero cospicuo di paesi arabi ha interrotto le proprie relazioni diplomatiche con il Qatar, bloccato i collegamenti terrestri, marittimi ed aerei con Doha, e imposto ai cittadini qatarioti residenti entro i propri confini di lasciare il paese. Tra essi, spiccano – sia per importanza geopolitica, sia per il ruolo di primo piano giocato nel muovere i fili che hanno portato alla crisi diplomatica che sta attualmente interessando e paralizzando la penisola arabica – Arabia Saudita, Emirati Arabi, Bahrain ed Egitto.
A motivare la scelta di Riyadh e degli altri paesi arabi che ne hanno seguito i passi sarebbero le accuse mosse contro Doha secondo cui quest’ultima avrebbe fornito supporto a gruppi quali Al Qaeda, i Fratelli Musulmani, e Hamas e avrebbe mantenuto una politica estera di eccessivo avvicinamento all’Iran – la nemesi Saudita per tradizione.
Di fronte al rigetto di ogni accusa da parte di Doha e al non irrilevante supporto da essa trovato in Iran, Turchia, Oman e Kuwait, il “gruppo dei quattro” (Arabia Saudita, Bahrain, Emirati Arabi ed Egitto) due settimane più tardi ha presentato al Qatar 13 misure da implementare entro 10 giorni per porre fine alla crisi diplomatica e al proprio isolamento all’interno del Gulf Cooperation Council (GCC) e del mondo arabo più in generale.
Ad oggi, Doha ha denunciato le richieste saudite (che vanno dall’interruzione dei legami -peraltro non provati – con gruppi giudicati “terroristici” da Riyadh come i Fratelli Mussulmani, alla cessazione di ogni rapporto con l’Iran, alla chiusura del canale di informazione Al Jazeera, alla chiusura di una base militare turca in Qatar) come “inaccettabili” e come una minaccia alla sovranità del Qatar. Tale rifiuto di Doha, peraltro supportato dal commento del Segretario di Stato USA Rex Tillerson che ha richiesto l’elaborazione di domande più “ragionevoli”, sembra dunque deludere le speranze di chi aveva confidato nella cessazione di quella che si è affermata come la più grave crisi diplomatica interna al Golfo.
Sullo sfondo di una crisi di tale gravità e portata, che non solo non ha precedenti ma ha anche il potenziale per cambiare drasticamente gli equilibri interni al GCC e alla sfera arabo-sunnita, diventa dunque fondamentale andare alla comprensione delle relazioni che hanno storicamente definito alleanze e inimicizie nella Penisola Arabica e del modo in cui esse si stanno ora riflettendo sugli eventi attuali.
Storicamente, il Qatar si è caratterizzato come il paese del Golfo con la politica estera maggiormente indipendente rispetto alla linea generale tracciata dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi, e seguita a ruota dagli altri membri del Consiglio. Infatti, ha sempre mantenuto relazioni di cordialità e finanche di coordinamento con l’Iran, paese con il quale condivide la gestione della più grande riserva di gas del mondo (il South Pars) che giace nelle acque del Golfo tra Qatar e Iran; ha ospitato nel proprio paese figure di spicco della Fratellanza Musulmana quando queste si sono viste allontanate dall’Egitto di al-Sisi, così come leader di Hamas ed esponenti dei taleban afghani che si sono dichiarati disponibili a cercare spazi di dialogo con Kabul; ha sostenuto attivamente Hamas – il grande rivale dell’Autorità Palestinese guidata da Abbas – e il governo da esso esteso su Gaza dal 2007; ha lasciato che nel 2011 la propria trasmittente Al Jazeera si facesse voce promotrice dei valori e delle richieste economico-politiche che stavano fomentando le Primavere Arabe e che tanti timori suscitavano invece in Arabia Saudita, Yemen e Bahrain.
Appare così evidente come rispetto agli altri paesi arabo-sunniti della Penisola Arabica il Qatar sia un attore sui generis e nonostante i tentativi di coniugare le proprie scelte autonome di politica estera con la necessità di conformarsi alla linea dominante entro il GCC (come ha fatto mettendo le proprie forze al servizio della coalizione a guida saudita che combatte in Yemen contro gli Houthi dal 2015) ciò non è stato sufficiente a placare l’ostilità espressa nei propri confronti da Arabia Saudita ed Emirati che si è infatti più volta tradotta in tensioni diplomatiche.
Per l’Arabia Saudita, in particolare, è cruciale il fattore Iran. Dal 2011, con il collasso di regimi storici in Medio Oriente e con lo scoppio di brutali guerre civili che hanno esacerbato la conflittualità tra sciiti e sunniti, l’Iran ha trovato numerosi spazi – in Siria, Iraq, e Yemen – per affermarsi come attore regionale di primo piano con il quale né i rivali sunniti né l’Occidente e la comunità internazionale potevano più rifiutarsi di fare i conti. Tale ascesa iraniana ha scatenato profonde preoccupazioni a Riyadh, che si è dovuta confrontare sia con le difficoltà economiche causate dal crollo del prezzo del greggio, sia con le minacce alla sicurezza causate dallo scoppio della guerra in Yemen, da una popolazione interna sciita richiedente maggiori diritti, e da un intiepidimento dei rapporti con gli USA sotto l’amministrazione Obama. In questo quadro, è diventato cruciale per Riyadh mantenere la propria credibilità di potenza affermandosi come egemone regionale a scapito dell’Iran, ed è nell’ottica di tale acerrima rivalità tra Iran e Arabia Saudita che è da leggere l’isolamento imposto da quest’ultima ai danni di un Qatar giudicato troppo vicino a Teheran.
Dal canto proprio, gli Emirati sembrano essere meno ossessionati dall’incubo iraniano che disturba i sonni dei Saud e sembrano invece porre maggiore enfasi sulla necessità che il Qatar ponga fine a ogni proprio collegamento con la Fratellanza Musulmana e con gli altri gruppi islamisti della regione. Gli Emirati, infatti, vedono questi gruppi come una pericolosa forza destabilizzatrice e come una grave minaccia alla sostenibilità dello status quo peninsulare e regionale su cui la loro politica estera e le loro alleanze poggiano. A ciò è poi da aggiungere come gli UAE sperino che un isolamento –e quindi un indebolimento diplomatico- del Qatar possa indurre gli Stati Uniti a trasferire negli Emirati la base militare che attualmente hanno in Qatar.
Il timore degli Emirati circa il supporto dato da Doha a gruppi Islamisti attivi nella regione è del resto profondamente condiviso anche dai due grandi altri attori che hanno preso misure contro Doha: Bahrain ed Egitto. Dal febbraio 2011, quando le proteste della Primavera Araba hanno ingolfato le strade di Manama e minacciato la stabilità della famiglia al-Khalifa, il Bahrain è strenuo e attivo difensore dello status quo che i gruppi islamisti vicini a Doha sembrano invece voler travolgere con i loro progetti di riformismo politico.
Sugli stessi binari si muove l’Egitto, dove a partire dal colpo di stato che ha portato al-Sisi al potere nel 2013 vi è stata una durissima repressione ai danni dei Fratelli Musulmani e di ogni gruppo ad essi legato e dove il governo è impegnato in un duro e quotidiano scontro con gruppi di ispirazione islamista che minacciano la sicurezza del paese soprattutto in aree meno centralizzate come la Penisola del Sinai. Inoltre, le gravi difficoltà finanziarie degli ultimi anni hanno contributo a cementare un avvicinamento tra il Cairo e la ricca Riyadh, che si è fatta donatrice di numerosi aiuti al governo di al-Sisi e che ha con esso concluso una serie di piani di aiuto che hanno contribuito a rimpinguare le prosciugate tasse del Cairo.
Diversamente, Oman e Kuwait hanno storicamente giocato un ruolo di mediatori tra il Qatar –con cui mantengono da sempre buone e serene relazioni- e gli altri membri del GCC. Pur condannando il supporto da parte di Doha a gruppi di ispirazione islamista, infatti, mantengono come il Qatar relazioni cordiali con l’Iran e credono nell’importanza di inserire il miglioramento delle relazioni tra il Golfo e l’Iran nel quadro più generale della lotta al terrorismo e all’insicurezza regionale. Come Doha, poi, mantengono legami con Teheran in campo energetico: l’Oman da tempo pianifica di iniziare ad importare gas iraniano attraverso una pipeline che connetta la provincia iraniana di Hoormuzgan con Sohar; mentre il Kuwait sembra aver recentemente avviato negoziazioni con l’Iran per importarne il gas.
La crisi che sta interessando il Golfo si svolge dunque sullo sfondo di tensioni e rivalità pre-esistenti e che i più recenti eventi non hanno fatto che esacerbare. Proprio per la lunga data di tali tensioni, fare previsioni su quali potrebbero essere le conseguenze se il Qatar e il “gruppo dei quattro” non riuscissero a trovare una linea di comune accordo è estremamente difficile. L’unica affermazione che può essere fatta con certezza –e con preoccupazione- è che, se un accordo non dovesse essere raggiunto, le dinamiche che sono esistite finora nella regione risulterebbero stravolte e la sicurezza mediorientale ulteriormente compromessa.
Marta Furlan