Hebron Road è stata per anni la più importante arteria di collegamento tra Gerusalemme e la città di Betlemme, popolare meta di pellegrinaggio per la comunità cristiana (è il luogo in cui è nato Cristo) ed ebraica (vi è seppellita Rachele, moglie di Giacobbe, eroe eponimo dello Stato di Israele). Su questa strada, Claire e Johnny Anastas, coniugi cristiani palestinesi, hanno impiantato la loro attività a metà degli anni ’70: un’officina meccanica, poi un negozio di souvenir. La loro storia non è un caso isolato, sono infatti tanti quelli che nello stesso periodo sono riusciti a sfruttare il flusso di visitatori a proprio vantaggio facendo diventare l’area una delle più ricche e floride della città.
Oggi la zona è deserta. La casa degli Anastas è circondata su tre lati da un muro di cemento alto 8 metri che non fa passare neppure la luce. Il parco giochi di fronte alla loro casa non è che una discarica e, in qualsiasi direzione si guardi, le telecamere di sicurezza puntano i loro occhi elettronici sulla strada che conduce all’edificio isolato. Dalle finestre non si vedono altro che le torri di controllo. Di ciò che era, non è rimasto nulla.
Dal 2000, e per tutta la durata della seconda intifada, questa è stata una zona di guerra. Nei dintorni della casa ci sono diversi edifici elevati all’epoca usati dai cecchini, e le camere da letto al secondo piano e la terrazza sono state spesso attraversate dal fuoco incrociato. Le incursioni notturne erano frequenti e Claire e Johnny, insieme ai loro quattro figli piccoli erano costretti a dormire sul pavimento, vicini alla porta d’ingresso, paralizzati dal terrore, pronti a fuggire.
Nel 2004, due settimane prima di Natale, nell’area viene applicato il coprifuoco e l’esercito israeliano avvia la costruzione del muro di separazione. In meno di una giornata la casa si trova circondata da una barriera di cemento e filo spinato. La Hebron Road viene tagliata in due dal muro che serve a bloccare il traffico in uscita da Betlemme (deviato verso il Checkpoint n°300) e garantire un accesso sicuro agli ebrei che si recano alla tomba di Rachele. Sul lato orientale della casa viene installato un avamposto militare temporaneo di cui oggi non si vede che lo scheletro.
Alla fine del conflitto, il quartiere si è ormai svuotato. I bazar e le altre attività commerciali sono abbandonate, e così anche gli affari della famiglia Anastas crollano. Ciò che resta costante è la presenza delle forze di sicurezza israeliane. Claire e Johnny sono praticamente tagliati fuori dal mondo, senza reddito e senza altro posto in cui trovare rifugio. Alla famiglia non è più consentito salire sul tetto della propria casa senza un permesso ufficiale. Per uscire dalla città e attraversare i check-point devono richiedere una serie di nulla osta speciali che implicano lunghe procedure burocratiche e non sempre vanno a buon fine. Per visitare i loro parenti che vivono a 10 minuti di distanza in linea d’aria, servono 2 ore in auto. Eppure loro hanno scelto di restare.
E’ stato chiesto più volte alla famiglia palestinese di vendere la propria casa e il relativo terreno allo Stato d’Israele. Più volte hanno rifiutato. Ma non è soltanto una questione di affezione a ciò che essi stessi hanno costruito. Ciò che li ha spinti a declinare le offerta è il timore di qualcosa che va ben oltre il vivere in una prigione. Nel 2014, il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas ha emesso un ordine esecutivo che modifica alcuni articoli del codice penale relativi alle transazioni immobiliari e aumenta le pene per la vendita di terreni ai “paesi ostili” e ai loro cittadini. La consuetudine esisteva già, e tre anni fa è stata semplicemente formalizzata. Al-Fatḥ fa applicare questa regola, e chi sceglie di vendere immobili agli ebrei rischia di essere ucciso (con o senza processo).
Se passate oggi da Betlemme, nel luogo segnalato sulla carta, troverete casa Anastas: Jhonny, Claire e i loro figli (che nel frattempo sono cresciuti all’ombra del muro). Stentano a guadagnarsi da vivere, ma hanno trasformato il loro stabile in una guesthouse (vi consiglio di trascorrerci almeno una notte), avviato un e-commerce di sculture artigianali in olivo, e trasferito ciò che restava dell’officina meccanica in un posto in centro città. Qualche mese fa, la polizia israeliana ha compiuto una retata nel loro garage e confiscato tutta l’attrezzatura da lavoro in quanto sospettati di usare la stessa per produrre e fornire armi ad Hamas. Poche settimane dopo, gli Anastas hanno ricevuto una lettera di rassicurazione dalla polizia in quanto non è stata trovata alcuna prova a sostegno dell’accusa. Ora però, per riavere i loro strumenti di lavoro dovranno fare ricorso alle autorità giudiziarie d’Israele. La procedura potrebbe durare mesi, e nel frattempo la famiglia non otterrà alcun indennizzo per la perdita del lavoro (perché così stanno le cose nel West Bank, per chi non è cittadino israeliano).
La storia di Claire e della sua famiglia forse non è troppo diversa da quelle dei tanti palestinesi della Cisgiordania che vivono all’ombra degli oltre 700 chilometri di muro (o rete elettrificata) costruiti per prevenire attacchi sul suolo Israeliano. Più di dieci anni fa, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite – con il parere della Corte Internazionale di Giustizia – ha approvato la Risoluzione ES 10/15 nella quale si afferma chiaramente come la barriera sia illegale dal punto di vista del diritto internazionale, in quanto edificata su territorio occupato militarmente. Sino al 2014, l’avanzamento dei lavori per il completamento della grande opera in cemento è stato incessante. A fasi alterne, la pressione della comunità internazionale ne ha rallentato la costruzione, ma esistono recenti progetti d’espansione che riguardano il West Bank (complementari alla moltiplicazione degli insediamenti israeliani in territorio palestinese).
di Paolo Iancale