In un mondo che sembra voler richiudersi su se stesso i mari e gli oceani sono uno degli elementi fondamentali per la logistica e le comunicazioni globali. Nel seguente articolo si illustrerà il ruolo che la Marina degli Stati Uniti – la U.S. Navy – avrà sul dominio dei mari, con le difficoltà di adattamento che dovrà superare per consentire agli USA di rimanere la maggior potenza a solcare gli oceani.
Se il lettore prendesse una cartina geografica e osservasse la posizione degli Stati Uniti vedrebbe come questi siano circondati dagli oceani; fatto che ha permesso al Paese di rimanere isolato geopoliticamente e isolato geograficamente. Va da sé che, dal punto di vista militare, la strategia “a stelle e strisce” si è sviluppata per meglio adattarsi a questa realtà geografica che rende il paese “un’isola” di fatto
In particolar modo emerge con chiarezza come tra i quattro corpi militari di cui gli USA dispongono – ovverosia l’U.S. Air Force, l’U.S. Marine Corps, l’U.S. Army e l’U.S. Navy – sia quest’ultima a godere della posizione di maggior peso. Considerazione questa che conduce a ritenere che gli Stati Uniti medesimi si possano classificare come una “talassocrazia”, una potenza marittima. Tra questi corpi militari quello che infatti ottiene i maggiori finanziamenti dal Dipartimento della Difesa è proprio la Marina, con l’Areonautica al continuo inseguimento.
Ciò si verifica dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. La risposta a questa ripartizione di risorse giace nel ruolo che la Marina ha svolto all’indomani del conflitto mondiale, cioè di garante della libertà di navigazione sui mari/oceani e di mantenimento delle Sea Lines of Communication.
In pratica la Marina degli Stati Uniti ha assunto il compito che per tutto l’Ottocento e la prima parte del XX secolo ricoprì la Royal Navy britannica, contribuendo quindi allo sviluppo dell’economia americana e mondiale, dato che gran parte dei commerci tra continenti si svolge, per l’appunto, sulle superfici liquide del globo.
Leggi anche Scramble for ports – La competizione mondiale per i porti strategici
Oggigiorno, tuttavia, la relativa diminuzione di potenza degli Stati Uniti, lo sviluppo di minacce di natura difforme nelle nazioni costiere, nonché la risorgente sfida proveniente dalla Russia e dalla Cina, stanno mettendo il servizio sotto pressione. Di conseguenza, il Pentagono e altre organizzazioni governative americane hanno avviato ampi studi con lo scopo di delineare una strategia in grado di assicurare il mantenimento di quella supremazia marittima – che al momento nessuna potenza mondiale può ancora mettere in discussione, nemmeno agendo di concerto – esistente da circa 70 anni.
In questo momento la Marina degli Stati Uniti ha concentrato la parte maggiore delle sue forze nella Flotta del Pacifico, che estende il proprio raggio d’azione fino all’Oceano Indiano. Tale spostamento del baricentro strategico dall’Atlantico al Pacifico si deve alla strategia del “Pivot to Asia” delineata nel corso della Presidenza Obama e mai messa in discussione dall’Amministrazione attuale.
Questo dipende sia dalla presenza in tale area del rivale cinese, sia dalla veloce crescita economica di tutta l’area asiatica, oltre alle minacce militari più tradizionali, come l’aumento dell’aggressività e delle capacità bellico-missilistiche nordcoreane.
Per ciò che attiene alla Repubblica Popolare Cinese va sottolineato come questa abbia messo spesso in discussione la libertà di navigazione nell’area. Si ricordi, infatti, della contesa nel Mar Cinese Meridionale riguardante le Isole Spratly e Isole Paracel, che coinvolge Pechino e tutta una serie di Stati costieri.
La determinazione cinese per il controllo sull’area – la Cina ne rivendica la sovranità e intende quest’area come proprie acque territoriali – è evidenziato dalla costruzione di isole artificiali negli atolli che compongono le Spratley, su cui sono stati installati in avamposti militari, dotati di piste d’atterraggio e sistemi di difesa radar/missilistici, facendo in modo che tali territori si inseriscano nella linea di difesa e di proiezione avanzata composta dalle catene di isole che “circondano” la Cina continentale.
La volontà di controllare quest’area di mare dipende dalla sua importanza strategica, sia per ragioni economiche che militari; infatti, il Mar Cinese Meridionale è ricco di fonti energetiche ed ittiche, nonché è funzionale all’accesso allo Stretto di Malacca, punto focale per le navi che dall’Estremo Oriente fanno rotta verso il Golfo Persico o il Canale di Suez. A fronte di ciò è necessario ricordare come il petrolio mediorientale sia fondamentale per lo sviluppo economico cinese, data la scarsità di fonti energetiche di questo tipo all’interno del territorio nazionale.
Quindi è piuttosto chiaro il motivo per cui gli Stati Uniti vedano tale area del Pacifico come foriera di molteplici problematiche, tanto da inviare nel corso di questi anni cacciatorpediniere naviganti entro le 12 miglia nautiche dai territori contestati proprio con lo scopo di “mostrare la bandiera” e sottolineare nuovamente la libertà di navigazione. Quanto detto anche in virtù di una sentenza della Corte Permanente di Arbitrato, che sulla questione della territorialità nel 2016 ha dato torto alle pretese cinesi.
Leggi anche La prima sentenza sulla dispute nel Mar Cinese Meridionale
Ad aggravare la pressione sulla U.S. Navy è il risorgente attivismo russo nel Mar Mediterraneo orientale – in special modo da quando Mosca ha inviato massicci contingenti nella Siria devastata dalla guerra civile – ma anche nelle acque dell’Atlantico Settentrionale. In queste zone, si è rilevato come l’attivismo russo sia cresciuto a livelli simili a quelli della Guerra Fredda, con particolare attenzione all’utilizzo di sottomarini che tornano ad avvicinarsi al cosiddetto “GIUK Gap” (Greenland, Iceland and United Kingdom).
Questo termine sta a indicare il varco di mare che separa le suddette tre nazioni e forma una sorta di check-point per le navi (o mezzi sottomarini) che vorrebbero infiltrarsi nell’Oceano dai territori settentrionali della Russia. Non è un caso, quindi, che dopo anni di abbandono e scarsa importanza strategica assegnata a questo “luogo” e alla guerra anti-sommergibile (ASW) nell’Atlantico, gli Stati Uniti abbiano deciso di riaprire la base navale di Keflavik in Islanda, e lì basarvi i nuovi aerei da ricognizione e ASW, ossia i P-8 Poseidon.
Un’altra area di strategica importanza per la Marina statunitense è sicuramente quella del Golfo Persico, nel quale da circa 30 anni si registra una continua presenza navale che prevede l’impiego di una o più portaerei oppure, più recentemente, le acque prospicienti alla Libia o al Golfo di Guinea, sul quale si affacciano una serie di Stati piuttosto rilevanti dell’Africa occidentale e nel quale, per via delle trafficate rotte commerciali, è emerso fortemente il fenomeno della pirateria (ormai praticamente scomparsa dalle coste somale).
Come quindi dovrebbe costruirsi il servizio navale per essere in grado di affrontare le minacce attuali e quelle in un futuro a medio-lunga scadenza?
Trump, una volta eletto, ha indicato che tra i suoi desiderata vi è quello di aumentare le unità navali a disposizione della Marina sino alla cifra di 355. Un obiettivo estremamente ambizioso che secondo indagini recenti non potrà essere raggiunto prima di 20-25 anni.
Problematiche legate ai contesti operativi si devono al grande sviluppo della tecnologia missilistica impiegata dai competitor americani per difendere le proprie coste da eventuali attacchi via mare. Tale situazione si produsse già qualche mese fa al largo delle coste yemenite, dalle quali partirono due missili anti-nave che furono indirizzati verso cacciatorpediniere della U.S. Navy (mancando il bersaglio). Il loro uso da parte di avversari “non paritari” conferma la complessità degli scenari futuri.
Il rischio sopra presentato è particolarmente rilevante nel caso del già menzionato quadrante dell’Asia orientale, in quanto la Cina è dotata di missili balistici DF-21 che si ritiene essere stati creati appositamente per colpire le portaerei americane, minando di conseguenza la capacità di proiezione delle forze aeree statunitensi (compresi i nuovi F-35c/b in dotazione alla Marina).
A propria volta la tematica della vulnerabilità delle portaerei, per la prima volta dalla conclusione della Seconda Guerra Mondiale, sta facendo dibattere le Commissioni Servizi Armati del Congresso riguardo alla loro rilevanza nei contesti della guerra moderna.
Alcuni propongono infatti di progettare delle cosiddette “portaerei light”, in grado da una parte di moltiplicare le zone pattugliabili in tutto il globo con un minor impegno economico, e dall’altra di esporre a meno pericoli le super-portaerei della classe Nimitz o Ford (attualmente in costruzione).
Nonostante l’allettante idea, sono emerse diverse obiezioni: portaerei più piccole potrebbero ospitare meno velivoli (e di conseguenza generare meno sortite aeree), e servirebbero nuovi progetti per adeguare le capability militari disponibili a questo nuova strategia marittima.
Tuttavia una novità che in realtà sta trovando applicazione è il concetto di “letalità distribuita”. Tale terminologia è utilizzata dalla Marina per descrivere il suo tentativo di adattamento alla realtà del nuovo secolo, e in particolar modo riguarda l’abbandono del tradizionale concetto di affidamento dei maggiori compiti ai SAG (Surface Action Group) o ai CSG (Carrier Strike Group) costituiti dal trittico incrociatori, cacciatorpediniere e portaerei (nonostante essi continueranno a configurarsi come i “cavalli da tiro” del servizio) e la distribuzione dei compiti alle altre navi di superficie, precisamente alle navi anfibie o alle cosiddette Small Surface Combatant (SSC).
Queste ultime comprendono principalmente le Littoral Combat Ships, che negli anni passati erano state designate per la guerra in acque costiere, ma che a causa di una serie di perduranti problematiche strutturali e di una scarsa affidabilità in ambienti non permissivi, hanno visto la loro produzione bloccata. Piani recentissimi (giugno 2017) prevedono lo studio di una nuova tipologia di fregata atta all’impiego multi-spettro (ASW, scorta ai convogli delle navi di supporto, contromisure alle mine, etc.), che derivi dagli scafi delle LCS e che assuma il compito previsto per le precedenti.
Inoltre, come accennato, una delle chiavi per la “letalità distribuita” sarà quello di equipaggiare una pluralità di mezzi con missili in grado di colpire oltre l’orizzonte, sfruttando le capacità innovative fornite dagli F-35. Questi, in realtà, con la tecnologia di cui sono dotati riusciranno a fungere da “celle di fusione” delle informazioni raccolte dai sensori, trasmettendole ad altri velivoli nonché alle navi stesse, capaci a quel punto di lanciare missili altrimenti non in grado di individuare obiettivi al di fuori della portata dei loro radar.
Leggi anche I cannoni laser sono realtà
Infine, non ci si dimentichi il ruolo che potranno avere i sistema d’arma laser adottati per la difesa anti-aerea e in una successiva contro i missili da crociera (la prima installazione avvenuta recentemente sulla USS Ponce) e le tecnologie a controllo remoto o autonomo. Si pensi in questo caso alla nave militare senza pilota progettata dalla DARPA – un Unmanned Underwater Vehicle (UUV) chiamata Sea Hunter – creata appositamente per la guerra anti-sommergibile.
Quanto detto sino a ora permette di comprendere come le sfide tecnologiche e geopolitiche a cui si trova di fronte la U.S. Navy sono plurime, e che solo un mutamento d’impostazione operativo, dotazioni finanziarie notevoli e volontà di sperimentazione permetteranno al corpo militare statunitense di rimanere la forza navale dominante sui mari.
Crediti foto di copertina: 1st Cl. Harry R. Watson/U.S. Coast Guard
di Luca Bettinelli