Secondo l’Alto Commissariato per i Rifugiati (UNHCR), in Congo quasi 7.000 persone sono fuggite nel vicino Burundi e 1.200 in Tanzania durante la scorsa settimana, per evitare il reclutamento forzato e le violenze dei gruppi armati, che hanno esteso le operazioni militari anche alle zone fino a pochi giorni fa ritenute più sicure, come le province di Kasai e Tanganica nell’est del Paese. Molte delle persone in fuga hanno subito torture, stupri e assistito a massacri di interi villaggi.
Già il mese scorso Jean-Philippe Chauzy, capo della missione in Congo dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), aveva avvertito che la crisi umanitaria aveva raggiunto il “punto di rottura” a causa di una rapida escalation del conflitto inter-etnico che divampa nel Paese e che le risorse a disposizione delle agenzie umanitarie per far fronte alla crisi, aggravata anche da alluvioni e da un’epidemia di colera, non sono sufficienti.
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Il Programma Alimentare Mondiale (WFP) e la FAO hanno anche lanciato un allarme per l’insicurezza alimentare nel Paese: il numero di chi soffre la fame estrema è aumentato di 2 milioni negli ultimi sei mesi, e ha raggiunto 7,7 milioni, circa il 10% della popolazione.
Con 4,5 milioni di sfollati il Congo è il Paese africano con il maggior numero di persone che pur avendo lasciato la propria casa sono rimaste all’interno dei confini dello stato. Un triste primato che si è aggravato nel Dicembre del 2017, quando il presidente Joseph Kabila ha rifiutato di dimettersi alla fine del suo mandato scatenando proteste, repressione e scontri armati. Sempre a dicembre, 15 membri dell’ONU sono stati uccisi dai miliziani islamisti nella provincia orientale del Nord Kivu, in quello che il segretario generale ONU António Guterres ha definito “il peggior attacco alle forze di pace delle Nazioni Unite nella storia recente dell’Organizzazione”.
di Samantha Falciatori