Come sta cambiando l’Aviazione degli Stati Uniti d’America (USAF) e in che modo questi cambiamenti potranno modificare le dottrine militari e le strategie di guerra delle grandi potenze del sistema internazionale.
Quando si pensa all’Aviazione degli Stati Uniti, l’U.S.A.F (United States Air Force) per impiegare un linguaggio più appropriato, la mente vaga immediatamente sino a immaginare aerei da combattimento osservati in una miriade di pellicole hollywoodiane oppure, ancora più facilmente, ci si ritrova a fantasticare su fantomatici velivoli invisibili, i cosiddetti stealth, simbolo a propria volta della potenza e capacità tecnologica “a stelle e strisce”. In questa analisi si cercherà di raccontare i cambiamenti organizzativi e di prospettiva d’impiego che stanno attraversando l’USAF medesima, così come già abbiamo tentato di fare parlando del Corpo dei Marines.
IL PRESENTE
Negli ultimi decenni, in particolar modo dalla Prima Guerra del Golfo – ossia l’intervento volto a scacciare l’Iraq di Saddam dal Kuwait a cavallo tra il 1990 e il 1991 – l’Aviazione degli Stati Uniti è stata pesantemente impegnata in qualsiasi conflitto nel quale il paese fosse coinvolto, agendo il più delle volte come strumento di primo impiego, di deterrenza e di dominio, sino a divenire una forza necessaria per assicurare alle altre componenti della macchina bellica la vittoria sul campo di battaglia.
Indubbiamente la caratteristica primaria da essa posseduta in questo lasso temporale è stata la sua virtuale impunità; la funzione per la quale ogni branca aerea è creata, ovverosia il dominio dei cieli, non è stata fondamentale in questo periodo storico. Questo in virtù del fatto che gli avversari affrontati non sono quasi mai stati dotati di strumenti per una efficace difesa antiaerea o, ancor più semplicemente, di velivoli in grado d’impensierire quelli americani.
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Le uniche perdite sostenute nei conflitti di questi ultimi anni, non a caso, si dovettero principalmente a eccezionalità o impieghi operativi errati da parte degli stessi comandi (famoso l’abbattimento di un F-117, teoricamente invisibile, sui cieli serbi duranti la guerra del Kosovo nel 1999). Conseguentemente tale dominio ha continuato ad assicurare che nessuna unità terrestre subisse attacchi dal cielo da parte di forze nemiche; e ciò non avviene dalla Guerra di Corea, in un episodio del 1953.
Perciò, la sua ragione d’essere nelle campagne afghane e irachene (per non citare tutti gli altri teatri operativi minori nella quale l’USAF si è trovata impegnata) si è sempre collocata nel trasporto aereo di uomini e materiali, nonché nel cosiddetto CAS (Close Air Support), ulteriore acronimo militare per indicare il sostegno che dall’aria si offre alle truppe terrestri; supporto che moltissime volte ha permesso di risolvere scontri o addirittura salvare le vite di intere unità.
Per comprendere bene la rilevanza di questo impiego operativo sarebbe utile leggere i rapporti della battaglia di Kamdesh, nella quale una sessantina di militari dell’Esercito degli Stati Uniti rischiarono di essere annientati dall’assalto di una forza pari a 300/400 talebani. Solo l’uso del cosiddetto codice “Broken Arrow”, consistente nella richiesta di tutto il sostegno aereo possibile quando un’unità terrestre risulta sul punto di essere soverchiato: si ribaltò la situazione e permise agli uomini sul campo di uscirne e limitare molto le perdite.
Un ulteriore settore nel quale gli ultimi 15 anni furono senza dubbio di grande cambiamento è il riguardante i cosiddetti UAV (Unmanned Air Vehicles). Già dagli anni Settanta l’Aviazione sperimentò velivoli controllati in maniera remota e senza un pilota, ma sono stati i conflitti esplosi all’indomani del settembre 2011 a segnare una vera e propria rivoluzione nell’impiego dei droni.
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Precedentemente indirizzati esclusivamente verso la funzione di ricognizione, sorveglianza e intelligence (ISR), oggigiorno lo sviluppo della dottrina operativa e l’enorme avanzamento tecnologico hanno reso capaci questi strumenti di compiere una grande varietà di missioni, tanto da divenire un complemento ai mezzi dotati di pilota e da condurre alla studio e relativa applicazione pratica di una vera e propria integrazione uomo-macchina.
In special modo, dopo un uso riservato solamente alla divisione paramilitare della CIA, l’USAF decise di investire massicciamente su droni armati, partendo dal precursore MQ-1A Predator e giungendo al suo principale sostituto, l’MQ-9 Reaper, in grado di portare carichi di missili e bombe “intelligenti” di varie tipologie.
Per la verità, il ricorso massiccio a questi mezzi nei teatri operativi ha suscitato pesanti interrogativi nei think-tank della difesa, nonché negli organismi internazionali e nelle organizzazioni non governative, in ragione del fatto che le perdite esclusivamente materiali dei velivoli abbasserebbe la soglia di restrizione nel loro utilizzo, portando quindi a spingere gli attacchi contro bersagli designati (soprattutto nei contesti contro-insurrezionali nei quali la distinzione tra combattenti e civili è molto sfumata) sino a limiti di rischio precedentemente considerati in maniera più restrittiva.
Non è un caso che di fronte alle polemiche e rischi di ricadute negative all’immagine degli Stati Uniti nel mondo, il Presidente Obama impose delle regole maggiormente strette nel loro uso e nominò il Pentagono come unico responsabile nei contesti di conflitto, lasciando quindi la CIA ad agire nei luoghi maggiormente sensibili nei quali il Paese non era ufficialmente impegnato (leggasi, per esempio, il Pakistan).
Per dovere di cronaca è necessario ricordare come l’attuale inquilino della Casa Bianca ha anche in questo campo sovvertito un decreto presidenziale del predecessore, lasciando nuovamente maggior mano libera anche all’agenzia per l’intelligence estera.
I CAMBIAMENTI
Con le direttive impartite all’interno della recente National Defense Strategy elaborata dal Segretario alla Difesa Mattis e dai suoi collaboratori, anche l’ambito operativo dell’USAF viene modificato. In special modo, il perdurante dedicarsi alle attività in contesto cosiddetto “permissivo” (ovverosia nel quale le difese terrestri e aeree nemiche sono scarse e/o facilmente soverchiabili) sta lasciando il passo a possibili scenari nei quali anche l’USAF si troverà a confrontarsi con elementi ostili con capacità operative maggiori.
Questo soprattutto nel caso in cui si dovessero verificare crisi con i quattro Stati menzionati esplicitamente all’interno dell’aggiornamento della strategia nazionale: Russia, Repubblica Popolare Cinese, Repubblica Islamica dell’Iran e Corea del Nord. Contando che scontri con i primi due menzionati sono al momento altamente improbabili, anche perché forieri di ulteriori pericoli di escalation globale, sono gli ultimi a essere presi in esame, anche perché situazioni di tensione trasformabili in confronti “reali” non si possono escludere totalmente nelle rispettive aree geografiche.
Ma quali sono gli elementi che l’Aviazione degli Stati Uniti dovrebbe tenere in considerazione?
Indubbiamente per entrambi i Paesi menzionati, il pericolo maggiore sicuramente non si manifesterebbe attraverso la rispettiva controparte volante, data che la scarsità di mezzi e la vetustà degli stessi non permetterebbe in alcun modo di resistere al confronto con i caccia di 4a o di 5a generazione posseduti dagli Stati Uniti (i primi, per esempio, comprendono gli F-15, mentre i secondi gli F-22 e F-35), quanto tramite le armi anti-aeree.
In tale categorie rientrano tutti quegli strumenti aventi funzione di difendere lo spazio aereo di uno stato e dispiegate a terra; si parla quindi di cannoni anti-aerei, batterie missilistiche SAM (Surface to Air Missile) e di missili MANPADS, in pratica missili anti-aerei a breve raggio lanciati da un singolo soldato. Ciò che è maggiormente temuto dai pianificatori aerei è l’incontro con le cosiddette “anti-access/area denial” (A2/AD in linguaggio tecnico), zone aeree nella quali vi è un’estrema difficoltà di sorvolo a causa delle difese che l’avversario ha installato; difese stratificate e che quindi andrebbero a “occuparsi” di quote d’altitudine diverse, saturando lo spazio aereo medesimo.
Proprio in virtù di tali situazioni gli Stati Uniti hanno posto riposto notevole interesse e investimenti nello sviluppo degli aerei da combattimento di 5a generazione, che con le loro caratteristiche di velocità ma soprattutto di stealthness sarebbero in grado d’intervenire nei primi giorni di un conflitto, rendendo l’ambiente più sicuro per il resto delle forze che dovrebbero operare dopo l’eliminazione delle difese maggiormente problematiche. Quanto detto, chiaramente, non sarebbe completamente realizzabile se non venissero in aiuto anche missili e bombe a lungo raggio capaci di attaccare tali siti e relativi centri di comando e controllo da lunghe distanze, rendendo quindi gli attaccanti virtualmente non raggiungibili se non dalle batterie SAM a più lunga gittata.
Tuttavia, uno degli aspetti più importanti delineati dalla National Defense Strategy è proprio il ritorno alla competizione tra grandi potenze, che possedendo capacità militari simili a quelle “a stelle e strisce” vengono considerati near-peer adversaries. Con questo termine, com’è ben comprensibile, s’intendono Cina e Russia. Proprio in virtù di tale situazione le ultime proposte avanzate dalla leadership civile e militare dell’Aviazione riguardano l’incremento nel corso dei prossimi anni delle risorse finanziarie e materiali disponibili, tali da permettere una crescita delle squadriglie operative di un numero pari a 74, con un incremento maggiore in alcune specialità ritenute al momento deficitarie per affrontare i possibili scenari di battaglia.
Tale crescita ha suscitato un certo grado di scetticismo in diversi analisti per via delle risorse economiche che dovrebbero essere impiegate al fine del raggiungimento dell’obiettivo, senza poi dimenticare che tradurre nella realtà tali cambiamenti sarebbe sempre molto più complesso che limitarsi a discuterne su di un piano prettamente teorico. Questo per svariate ragioni, la cui principale, tuttavia, si attesta nel fatto che addestrare tecnici e soprattutto piloti è un processo estremamente lungo, specialmente di fronte alla complessità delle macchine e sistemi odierni – l’F-35 ne è uno dei più plastici esempi.
Da non sottovalutare, inoltre, che attualmente la situazione economico-finanziaria statunitense è piuttosto positiva, e ciò rende l’arruolamento e la permanenza nelle Forze Armate una via meno attraente rispetto a qualche anno fa. Questo fatto è indubbiamente estensibile a qualsiasi servizio, ma l’Aviazione possiede anche la particolarità di trasmettere competenze fortemente ambite anche nel settore civile, in special modo nel settore aeronautico che, non a caso, è in grado di attrarre numerosi piloti.
Si pensi che, anche in ragione di tale mancanza di uomini e donne, l’USAF qualche anno fa decise di studiare la possibilità di permettere anche ai sottufficiali anziani di seguire corsi per divenire piloti di droni, un settore in notevole espansione. Tale fatto fu particolarmente significativo, in quanto sin dalla Seconda Guerra Mondiale, i comandi di un velivolo sono stati attribuiti in via esclusiva a un ufficiale.
Un ultimo punto da tenere in considerazione è la diatriba che si è accesa da qualche anno a questa parte tra i sostenitori di un ritorno totale alla già accennata competizione tra grandi potenze e quelli suggerenti la necessità di mantenere tattiche, tecniche e procedure (nonché mezzi) atti alle guerre non convenzionali/contro-insurrezionali. Il caso si esemplifica perfettamente nella diatriba tra i “fan” dell’F-35 e dell’A-10. Quest’ultimo velivolo risale ai decenni nei quali si credeva che la NATO e gli Stati Uniti avrebbero dovuto scontrarsi con forze del Patto di Varsavia nelle pianure dell’Europa centrale; proprio per questo venne dotato di caratteristiche tali da renderlo in grado di resistere a numerosi colpi nemici e di distruggere praticamente qualsiasi bersaglio mobile capace di sparare. Per questo, da quel momento fu definito come “la piattaforma CAS” per eccellenza.
Però, data la diminuzione delle risorse nei bilanci, l’invecchiamento del mezzo stesso e l’arrivo del multi-ruolo strategico F-35, diverse componenti della gerarchia militare e civile hanno sostenuto la fattibilità del suo ritiro, possibilità che ha scatenato un fuoco di sbarramento da parte dei suoi sostenitori, con argomentazioni spazianti dai minori costi di volo per ora alla maggiore robustezza rispetto al super-tecnologico F-35.
In definitiva, la diatriba si è risolta (almeno per il momento) con l’apertura di una competizione tra aziende atta a fornire all’Aviazione un aereo simile all’A-10 in grado di essere impiegato nelle campagne più “permissive”, lasciando quindi il più recente dei due alle mansioni più complesse per i quali è, innegabilmente, stato concepito.
L’INCOGNITA
Prima di concludere l’articolo e la relativa discussione concernente la forza aerea degli Stati Uniti è importante menzionare ciò che, ancora una volta, è giunto a seguito di un desiderata del Presidente Trump. Quest’ultimo, qualche mese fa, ha infatti sostenuto la necessità che il Paese si doti di una cosiddetta “Space Force” dedita a studiare ed eventualmente gestire i conflitti che potrebbero riguardare lo spazio extra-atmosferico e orbitale.
Tale situazione, come si potrà ben comprendere, è ben lungi dall’essere semplice nella sua realizzazione come parrebbe illustrare l’inquilino della Casa Bianca, visto la necessità di organizzare unità, creare strutture, elaborare dottrine e individuare situazioni nelle quali tale nuovo servizio andrebbe a operare. Non è un caso, infatti, che colui il quale si è addentrato a esporre alla stampa il progetto del Presidente non è stato James Mattis, Segretario alla Difesa, che molti ritengono contrario all’idea in discussione, ma il Vice Presidente Mike Pence. Oggi non si sa ancora nulla di concreto su questo progetto, e solo il tempo sarà in grado di dimostrare la bontà dell’idea (anche se, in realtà, esistono già delle proposte per il logo di questa nuova struttura militare).
Per questo, attualmente, l’USAF si limiterà a studiare come affrontare e risolvere i problemi reali di un mondo altrettanto reale.
a cura di Luca Bettinelli