La situazione siriana è un inferno. Capire cosa sta succedendo è doveroso in quanto esseri umani e indispensabile per la comprensione di quei fenomeni che travalicano i confini naturali di quella terra. Per questo motivo la nostra Rivista seguirà più da vicino la guerra siriana, che in realtà sono tante guerre diverse e sovrapposte, in modo da fornire un quadro sempre aggiornato e il più chiaro possibile.
I curdi chiedono alla comunità internazionale di rimpatriarli, ma è un processo incerto, poroso e non voluto. Cosa fare anche di migliaia di donne e bambini?
Con la caduta di Baghouz, ultima roccaforte dell’ISIS in Siria, espugnata dalle Forze Democratiche Siriane (SDF) a guida curda con il sostegno delle forze americane il 23 marzo 2019, il Califfato è stato finalmente sconfitto, ma sarebbe ingenuo celebrarne l’eliminazione. Gli attacchi delle ultime settimane, l’ultimo a Raqqa il 9 aprile, dimostrano quanto la definitiva eliminazione dell’ISIS sia lontana. Come annunciato infatti da Jim Jeffrey, Inviato per la Siria del Dipartimento di Stato americano, la lotta contro l’ISIS continuerà e gli USA manterranno un numero, pur limitato, di truppe in Siria a questo scopo.
Ma cosa fare dei prigionieri catturati e delle loro famiglie, prevalentemente donne e bambini? Dovrebbero essere processati, incarcerati o giustiziati? O rispediti nei loro Paesi d’origine, essendo per lo più foreign fighters?
L’amministrazione curda che gestisce gran parte della Siria settentrionale ha chiesto di istituire un tribunale internazionale nella loro regione per processare le migliaia di presunti membri dello Stato Islamico e ha fatto appello alla comunità internazionale affinché si assuma le responsabilità: che ogni Stato rimpatri i suoi foreign fighters. Le SDF sottolineano infatti che non hanno le capacità per gestire da soli migliaia di ex membri dell’ISIS né di trattenerli a lungo. Come prevedibile, però, la proposta non è stata accolta con favore.
Le condizioni nei campi, dove sono raccolti non solo i prigionieri e le loro famiglie, tra cui migliaia di bambini, ma anche migliaia di civili sfollati dai combattimenti, sono però drammatiche, con scarsità di tende, cibo e medicine e con diffuse malattie che causano frequenti morti, anche tra i bambini, in quello che le organizzazioni umanitarie denunciano come una crisi umanitaria. Centinaia dei bambini nei campi sono orfani e la Croce Rossa Internazionale ne chiede il rimpatrio immediato.
Secondo la Commissione Europea, tra il 2011 e il 2016 oltre 42.000 combattenti stranieri si sono uniti a organizzazioni terroristiche, circa 5.000 dei quali si ritiene provengano dall’Europa.
Circa 850 sono stati detenuti dalle SDF negli ultimi anni, secondo il Dipartimento di Stato americano, cosa che ha spinto Washington a fare pressione sui Paesi europei affinché li rimpatrino.
Finora, la Repubblica della Macedonia del Nord è stato il primo Paese a rimpatriare e processare 7 ex combattenti dell’ISIS nell’agosto 2018, seguita dalla Francia che il 15 marzo 2019 ha rimpatriato 5 bambini di jihadisti francesi. La Germania ha riferito che un terzo dei suoi circa 1.000 cittadini che si ritiene abbiano aderito all’ISIS dal 2013 sono tornati e sono stati già messi a processo o inseriti in programmi di riabilitazione, mentre in Australia il dibattito è acceso. Ma si tratta di gocce nel mare.
Tale riluttanza può essere dovuta, oltre che a ovvi motivi di sicurezza nazionale, anche dalla preoccupazione che gran parte delle prove contro eventuali combattenti di ISIS non possano reggere in tribunale. Come spiega Shiraz Maher, direttore del Centro internazionale per lo studio della radicalizzazione:
“Dal punto di vista legale, la maggior parte delle cosiddette ‘prove sul campo di battaglia’ non sarebbero ammissibili in tribunale, a causa di motivi probatori o del modo in cui sono state ottenute. Utilizzare prove di intercettazione è vietato nei tribunali del Regno Unito [ad esempio]. Il risultato è che alcuni combattenti britannici rimpatriati potrebbero essere assolti“.
Cosa fare dunque?
Servirebbe un approccio integrato a livello europeo: la Svezia ha già portato in seno al Consiglio dell’UE l’argomento di un tribunale europeo per i combattenti dell’ISIS, sostenendo che uno sforzo internazionale contribuirebbe a indagini e processi efficaci.
E le donne e i bambini?
Qui la cosa si complica, in quanto, come fanno notare gli esperti, il caso della donna sottomessa e costretta a unirsi all’ISIS con la forza, scenario molto diffuso, non rispecchia però la totalità dei casi. Molte donne sono state indottrinate così a fondo da credere davvero nella propaganda dell’ISIS e potrebbero rappresentare un pericolo per le società di reinserimento. Servirebbero programmi di de-radicalizzazione anche per loro. Complicato anche il caso dei bambini. In Belgio, ad esempio, si ritiene che i minori di 10 anni abbiano il diritto di tornare immediatamente in Belgio, mentre quelli di età compresa tra 10 e 18 anni dovrebbero essere esaminati caso per caso.
Non ci sono risposte chiare alla questione né consenso e ogni Paese sta elaborando strategie diverse per rispondere nell’immediato a un problema pressante che però non ha soluzioni definitive.
Tutto ciò mentre nelle ultime settimane il regime siriano ha ripreso i bombardamenti sulla provincia di Idlib, uccidendo decine di civili, come denuncia anche un rapporto di Amnesty International, e intensificato la campagna di arresti nelle città sotto il suo controllo, dove anche telefonare ai propri cari fuggiti a Idlib è punito con l’arresto, come avvenuto a una donna e alle sue quattro figlie arrestate ad Al-Rahiba, nella provincia di Qalamoun, per aver telefonato a parenti a Ildib. Per non parlare del crescente numero di arresti dei rifugiati siriani tornati in Siria da parte delle forze di sicurezza. Segno che la pacificazione in Siria è ancora lontana. Indipendentemente dall’ISIS.
di Samantha Falciatori