La situazione siriana è un inferno. Capire cosa sta succedendo è doveroso in quanto esseri umani e indispensabile per la comprensione di quei fenomeni che travalicano i confini naturali di quella terra. Per questo motivo la nostra Rivista seguirà più da vicino la guerra siriana, che in realtà sono tante guerre diverse e sovrapposte, in modo da fornire un quadro sempre aggiornato e il più chiaro possibile.
L’accordo tra Turchia e Russia, tra YPG e regime siriano e quella che sembra una spartizione del Rojava: cosa aspettarsi dopo l’intervento turco in Siria?
Operazione Peace Spring, ‘Fonte di Pace’: questo il nome, beffardo, dell’intervento turco in Siria che dal 9 ottobre 2019, con bombardamenti aerei e di artiglieria delle forze armate turche, coadiuvate dalle milizie ribelli dell’Esercito Nazionale Siriano (ri-brand dell’ex Free Syrian Army che oggi conta per lo più fazioni islamiste), sulle postazioni dell’YPG curdo a est dell’Eufrate, è riuscita in pochi giorni a cambiare l’assetto del conflitto in modo permanente.
Non solo per l’improvviso e confuso disimpegno militare degli Stati Uniti che, dopo anni di sostegno alle milizie curde contro l’ISIS, si sono frettolosamente ritirate dall’est della Siria dando di fatto via libera all’intervento turco, ma soprattutto per il derivante consolidamento russo nell’area e per l’alleanza delle milizie curde con il regime siriano.
Il punto di vista turco.
Innanzitutto, perché? Per quanto sbagliato dal punto di vista umanitario e del diritto internazionale, l’intervento turco – da tempo annunciato – va contestualizzato dal punto di vista politico e per farlo occorre capire il punto di vista turco – Erdogan lo ha spiegato in un op-ed del Wall Street Journal.
Dal 2013 la Turchia ha visto il suo confine meridionale finire sotto il controllo di un gruppo militare, ossia l’YPG curdo – braccio armato di un partito politico, il PYD – che ritiene terrorista, in quanto affiliato al PKK, un gruppo riconosciuto terrorista non solo dalla Turchia ma anche dall’Unione Europea.
Negli anni, in nome della lotta all’ISIS, l’YPG – armato e addestrato dall’alleato americano – si è espanso ben oltre i ‘confini’ delle città e aree curde, conquistando e imponendo il controllo, non sempre pacificamente, su città arabe – contribuendo a quella ricomposizione demografica già ben collaudata dal regime siriano.
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Per mesi la Turchia ha cercato un accordo con gli USA per limitare quella che ritiene una minaccia diretta alla sua sicurezza nazionale chiedendo la creazione di una zona sicura da dove far ritirare l’YPG. La cosa avrebbe potuto, nelle intenzioni turche, risolvere anche il suo secondo grande problema – l’avere in casa 3.5 milioni di rifugiati siriani – creando una zona cuscinetto dove poterli ricollocare.
Per quasi 8 anni la Turchia ha accolto e provveduto a quelli che oggi sono diventati 3.5 milioni di rifugiati siriani (4 milioni se si contano anche altre nazionalità), integrandoli il più possibile fornendo accesso medico, istruzione, sostegno economico ecc… pur non sempre con successo, dati i numeri impressionanti. Pur ricevendo l’aiuto internazionale, questa situazione non è sostenibile a tempo indeterminato (ad esempio negli ultimi 6 anni l’UE ha dato alla Turchia 6 miliardi di euro, ma la Turchia ne ha spesi 40): si parla di 3.5 milioni di rifugiati siriani senza alcuna prospettiva di ritorno.
Una safe zone in Siria gli permetterebbe dunque – nelle sue intenzioni, in parte irrealistiche – di mettere in sicurezza il confine ‘contro i terroristi’ e di creare un’alternativa per 3.5 milioni di rifugiati che non è più in grado di sostenere. Quando gli USA hanno rifiutato l’accordo per crearla, la Turchia è intervenuta da sola, con tutte le disastrose conseguenze del caso.
E la Russia?
La prima conseguenza di questa mossa è il consolidamento della Russia sia sullo scenario medio orientale che nello specifico nell’est della Siria. L’intervento turco è stato coordinato con la Russia – e tramite esso con il regime siriano, sebbene quest’ultimo abbia condannato l’operazione come un’aggressione alla sovranità della Siria – e mediato da Mosca fino alla firma di un memorandum tra Turchia e Russia con cui la prima cessa le operazioni militari e la seconda si impegna a facilitare il disarmo e il ritiro dell’YPG dall’est dell’Eufrate per 30 km (ritiro già iniziato), creando un meccanismo congiunto di pattugliamento e monitoraggio contro ‘ogni infiltrazione terrorista’, per mantenere ‘l’integrità e unità territoriale della Siria’ e ‘per facilitare il rimpatrio sicuro dei rifugiati’. La polizia militare russa è già dispiegata in città chiave come Manbij e Kobane.
Insomma, una win-win situation per i due attori principali, ma una palude per tutti gli altri, a cominciare dall’YPG.
L’alleanza con il regime siriano: la fine del sogno del Rojava?
Sì, perché chiedere aiuto a quel regime che ha represso, perseguitato e privato i curdi siriani di ogni diritto per oltre 50 anni e che da sempre si oppone a un Kurdistan autonomo è un grave errore politico.
Aprire le porte delle proprie città al regime, accettando condizioni svantaggiose e di fatto riconsegnandogli il Rojava, non può che portare alla fine del sogno di un Rojava libero e indipendente.
Solidarietà selettiva e risentimento inter-etnico.
Ma le conseguenze non sono solo politiche o territoriali: sono anche sociali. E saranno catastrofiche.
Già in passato l’YPG aveva strappato accordi a livello locale con il regime ai danni delle popolazioni arabe ed espandendosi in chiave anti-ISIS l’YPG aveva conquistato villaggi e città arabe sfollando forzatamente i civili arabi, confiscando le loro terre e proprietà, distruggendo i registri civili per impedirne il ritorno e commettendo quelli che molte organizzazioni umanitarie, tra cui Amnesty International e Human Rights Watch, hanno denunciato come crimini di guerra, alimentando il risentimento etnico tra siriani arabi e curdi.
Ma ora, aprendo i propri territori all’esercito siriano e alla polizia militare russa, l’YPG sta potenzialmente riportando tutto il nord-est della Siria nelle mani del regime, che avvierà le stesse politiche di punizione collettiva già adottate nelle aree che ha già riconquistato, come Deraa, Aleppo e Ghouta, dove gli arresti di massa e le torture di quanti gli si sono opposti continuano ancora oggi. Già in queste ore infatti il regime siriano, con l’aiuto delle milizie YPG, starebbe rastrellando Manbij e le aree intorno a Raqqa arrestando quanti stanno manifestando contro il ritorno del regime e quanti tentano di sottrarsi alla leva obbligatoria.
Costringere le popolazioni civili che hanno partecipato alla rivoluzione siriana, che hanno pagato il prezzo della lotta all’ISIS (Raqqa emblema per tutte) a ritornare sotto il giogo del regime non solo è crudele, ma rischia di rendere insanabile ogni risentimento etnico.
Un risentimento non certo lenito dai doppi standard dell’attenzione mediatica e dell’opinione pubblica.
La guerra in Siria ha languito nel dimenticatoio per mesi e nemmeno la feroce offensiva russo-siriana su Idlib iniziata ad aprile 2019, i suoi bombardamenti sugli ospedali e il suo mezzo milione di nuovi sfollati, erano riusciti a scalfire l’indifferenza internazionale; ma l’attacco alle milizie YPG, baluardo della lotta all’ISIS, di un esperimento di federalismo democratico – pur non privo di ombre -, di un femminismo progressista, e i crimini di guerra commessi dalle forze turche e dalle milizie ribelli sono riusciti in poche ore a sollevare una giusta indignazione mondiale e a riempire le piazze.
Inoltre, il fenomeno delle fake news che ha inondato internet di foto di vittime di bombardamenti russi, siriani, americani o dell’ISIS spacciandole per vittime dell’attacco turco, strumentalizzando ancora la sofferenza umana, non fa che peggiorare le cose (per verificare la veridicità delle foto che giungono dalla Siria consigliamo di consultare questo sito).
Eppure in Siria vengono commessi crimini contro l’umanità dal 2011, c’erano stati esperimenti di auto-governo democratico a Daraya, Idlib, Raqqa e innumerevoli altre città, schiacciate dalla repressione del regime siriano e dalla furia dell’ISIS, c’erano state donne in prima linea a dare la vita per la libertà e la giustizia, ma non hanno ricevuto la stessa attenzione né la stessa solidarietà.
Non è possibile spiegarne il perché in questa sede, ma il risultato di questi doppi standard sulla sofferenza delle vittime civili rischia di avere conseguenze nel lungo termine che renderanno la pacificazione della Siria ancora più difficile.
Cosa aspettarsi?
È plausibile aspettarsi che per i curdi l’autonomia territoriale si farà sempre più labile e che torneranno sempre più sotto la sfera di Damasco; il regime lavorerà per consolidare la sua presenza e riportare tutto il nord sotto il proprio controllo, con un occhio sempre verso Idlib; la Russia faciliterà questo piano ed non è da escludere una ripresa dell’offensiva su Idlib con il bene stare turco dopo l’accordo raggiunto contro l’YPG. Un do ut des che sarà interessante vedersi sviluppare dopo il 30 ottobre, quando il Comitato Costituzionale che dovrebbe portare regime siriano e opposizione a riscrivere la Costituzione siriana per una soluzione politica al conflitto si riunirà per la prima volta.
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Per quanto riguarda la Turchia, ha già in parte ottenuto ciò che vuole e la tanto agognata safe zone si sta materializzando. Quanto sicura sarà resta in dubbio: potrebbe riuscire nell’intento di sgombrare il confine dalle YPG ma non in quello di ricollocarci in massa milioni di rifugiati siriani. I rimpatri, per definizione, devono essere volontari e solo se le condizioni di sicurezza e mantenimento lo consentono, cosa che non sarà possibile per molto tempo e di sicuro non se quei territori torneranno in mano a quel regime da cui i milioni di rifugiati sono scappati.
Inoltre, il rischio di una ricomposizione demografica – rifugiati prevalentemente arabi in zone prevalentemente curde – è reale, sebbene in Siria da anni sia in atto una ricomposizione demografica ad opera del regime siriano che è già irreversibile.
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E mentre l’amministrazione americana è impegnata ad arginare i danni della politica estera di Trump, a ridimensionare il ritiro delle truppe USA per mantenerle almeno a presidio dei pozzi petroliferi nell’est della Siria, mentre l’Iran osserva con attenzione – e probabilmente con sollievo – la discesa del Rojava, avendo in casa esso stesso il problema dell’indipendentismo curdo, mentre ci si chiede quali saranno le conseguenze nella lotta all’ISIS e nella gestione dei prigionieri (proprio ieri, 27 ottobre 2019, un raid USA ha ucciso il leader dell’ISIS al Baghdadi), le prospettive restano cupe e la strada per la fine della guerra in Siria ancora troppo lontana.
di Samantha Falciatori