La schiavitù nell’epoca del Silicio

A demonstrator wearing a mask painted with the colours of the flag of East Turkestan and a hand bearing the colours of the Chinese flag attends a protest in of the mostly Muslim Uighur minority on 5 July 2018 [OZAN KOSE/AFP/Getty]
La storia della schiavitù nel 2020 non è molto diversa dalla storia della schiavitù in qualsiasi altra epoca. E il caso dello Xinjiang e del popolo Uiguro è qui per dimostrarcelo con tutta la sua potenza.

Contrariamente a quel che si pensa, essa non può essere semplicisticamente descritta come la privazione della libertà di un gruppo umano da parte di un potere egemonico che agisce spinto da una totale assenza di un codice morale. Tale affermazione è infatti vera ma incompleta, poiché la schiavitù si intreccia all’economia, alla finanza, agli interessi di grandi corporazioni e alle necessità di mercati di nazioni molto distanti dai luoghi in cui essa viene esercitata e i cui popoli sono di fatto completamente all’oscuro di essere complici inconsapevoli di questo sistema.

Se state leggendo questo articolo da un cellulare sappiate che probabilmente siete anche voi sostenitori ignari di questo orrore.  Procediamo con ordine e per prima cosa definiamo chi sono gli schiavi dell’Età del Silicio e che cosa significa essere schiavo.

Gli schiavi di cui stiamo parlando sono cittadini uiguri e di altre minoranze etniche (come i kazaki, gli uzbeki, i tartari, i taji, i kirghisi e gli hui.) dell’estremo ovest dello Xinjiang in Cina.

Mappa etnica dello Xinjiang – credits to: © The Christian Science Monitor

Ma prima di addentrarci nell’argomento, è bene chiarire perché possiamo propriamente parlare di schiavitù: in nostro aiuto arriva dal Indicators of Forced Labour che definisce gli undici punti caratterizzanti dello stato di schiavitù.

• Abuso di vulnerabilità
• Inganno
• Limitazione del movimento
• Isolamento
• Violenza fisica e sessuale
• Intimidazione e minacce
• Conservazione dei documenti di identità
• Ritenuta dei salari
• servitù per debito 
• Condizioni di vita e di lavoro abusive
• Eccessivo carico di lavoro.

La presenza di un un singolo indicatore in una data situazione può in alcuni casi implicare l’esistenza di “semplice” lavoro forzato, ma la presenza di più indicatori ci permette di parlare propriamente di schiavitù.

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Nello specifico, descrivendo la condizione degli uiguri – condizioni provate da documenti ufficiali dello stesso governo centrale e pubblicati nel novembre 2019 dal New York Times – in Cina sono sicuramente presenti i seguenti fattori:

  • sono soggetti a intimidazioni e minacce, fra cui la minaccia di detenzione arbitraria, e sono monitorati da personale di sicurezza anche mediante strumenti di sorveglianza digitale
  • sono posti in una posizione di dipendenza e vulnerabilità, anche mediante le minacce rivolte alle famiglie degli internati
  • hanno una libertà di movimento limitata, essendo confinati in fabbriche recintate e sottoposte a sorveglianza ad alta tecnologia
  • sono costretti all’isolamento, vivendo in dormitori separati e viaggiando per mezzo di treni dedicati
  • subiscono abusi sul lavoro fra cui l’indottrinamento politico, la costante minaccia della polizia posta a guardia delle fabbriche e il divieto di officiare pratiche religiose
  • Sono costretti a orari forzati e fuori norma.

Questa, riassumendo, la condizione degli uiguri, ma entriamo nel dettaglio.

Gli uiguri sono un gruppo etnico turco-mongolo di culto musulmano caratterizzato da una forte coesione etnica e animato anche da desideri indipendentisti che però, con la sola esclusione della Repubblica del Turkestan orientale fra il 1939 e il 1949, non si sono mai realmente concretizzati in una realtà politica indipendente.

Negli ultimi anni questi gruppi umani sono stati vittime di spostamenti coatti verso fabbriche di tutta la Cina in condizioni tali da poter parlare di lavoro forzato.

Un report del Consortium of Investigative Journalism riportato dal Australian Strategic Policy Institute confermano che almeno ottantamila uiguri siano stati ricollocati forzatamente fra il 2017 e il 2019 non solo in industrie e zone produttive ma anche direttamente in veri e propri campi di detenzione.

Tale numero di persone coinvolte è quanto risulta da un calcolo al ribasso, ed il numero degli uiguri effettivamente coinvolti è probabilmente molto più alto (come vedremo successivamente).

Alcune donne passano attraverso un ingresso di un bazar nella regione dello Xinjiang nord-occidentale della Cina – www.icij.org

Una volta strappati contro la loro volontà alle loro terre questi individui vengono distribuiti in dormitori in cui vengono separati, spogliati dei loro abiti tradizionali, mutati nell’estetica per adattarsi al modello ideale dell’etnia dominante in Cina, l’etnia han, e sottoposti a incessanti corsi di mandarino. Tali pratiche non sono nascoste dal governo centrale e riportate ufficialmente come parte del processo di integrazione nella società cinese. 

Inoltre vengono sottoposti ad un profondo processo di “ricostruzione ideologica e sociale”,  un modo elegante per descrivere un vero e proprio lavaggio del cervello di massa unito alla totale distruzione delle tradizioni culturali uigure.

Fra le misure adottate si annoverano, e sono anch’esse ufficialmente riportate: corsi di formazione ideologica obbligatori fuori dall’orario di lavoro per integrarsi nell’armonia cinese, essere sottoposti a continua e costante sorveglianza ma soprattutto l’obbligo di rinnegare il proprio credo espresso attraverso il divieto di officiare i propri riti religiosi.

Naturalmente, non appena la notizia di questi campi di detenzione si è diffusa non è tardata ad arrivare la, tiepida, condanna della comunità internazionale che ha denunciato tali attività attraverso una lettera a firma di venti paesi aderenti al Consiglio dei Diritti umani.

Fra questi manca l’Italia (argomento interessante ma che non sarà discusso in questa sede) e naturalmente gli Stati Uniti d’America che hanno abbandonato il Consiglio non condividendone le ripetute condanne alla politica di Israele nei confronti dei palestinesi.

L’aspetto geopoliticamente interessante di questa dichiarazione però è che essa rappresenta il primo atto ufficiale dei paesi storicamente nell’orbita USA a danno della Cina senza la guida degli stessi Stati Uniti, prendendo di fatto atto dell’abbandono di Trump a questi argomenti e tracciando le linee di una nuova linea indipendente in difesa dei diritti umani del mondo occidentale, che però al momento resta senza guida.

La lettera è stata infatti scritta da 20 paesi senza che nessuno di essi assumesse il ruolo di leader, come in passato avveniva con Washington in questi casi, il ché se da una parte riduce la forza di impatto di tale intervento, dall’altra parte rende molto più difficile per Pechino applicare delle specifiche ritorsioni.

Tale riluttanza americana ha rappresentato semplicemente un indebolimento delle iniziative occidentali, in altri invece, l’assenza del colosso atlantico si è trasformata in un’occasione per altre potenze rivali di assumere un ruolo principale nella questione dibattuta.

Volendo riportare due esempi, al primo caso sono ascrivibili gli accordi di Parigi per il clima, che, dopo il ritiro degli Stati Uniti, sembrano aver registrato un rallentamento nelle azioni concrete per arrestare il surriscaldamento globale come riportato dall’Istituto di riflessione internazionale ed europeo alla fine dello scorso anno.

Un’occasione invece di espansione per la Cina è stata rappresentata dal ritiro di Washington dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura (UNESCO) all’inizio di quest’anno, a seguito del quale, come osservato da Carsten Vala in un contributo al Berkley Center for Religion, Peace & World Affairs, Pechino ha dato vita ad una politica molto aggressiva di soft power per rivendicare un sempre maggior numero di siti riconosciuti dall’UNESCO.

In questa ottica di confusione delle storiche forze dell’occidente, a cui si contrappone una notevole capacità organizzativa e progettuale del gigante asiatico, si comprende perché l’ONU abbia scelto la linea dura nei confronti della Cina arrivando ad accusare Pechino di trattenere fino ad 1 milione fra uiguri e rappresentanti di altri gruppi minoritari nei campi di internamento nella regione dello Xinjiang.

Ovviamente la reazione cinese non si è fatta attendere attraverso il suo Ministro degli Esteri che l’ha definita una “flagrante interferenza negli affari interni della Cina”, aggiungendo che “Il governo cinese e il popolo cinese sono i più qualificati per parlare sulle questioni dello Xinjiang e non permettiamo ad altri paesi o poteri di interferire”.

Eppure, nonostante il tranquillizzante racconto ufficiale che descrive i campi di prigionia e lavoro come luoghi di rieducazione e riinserimento di persone socialmente “inadatte”, l’imbarazzo delle autorità di Pechino è evidente considerando che l’esistenza degli stessi era stata in principio negata e solo successivamente ricondotta alla narrazione che abbiamo ora riportato dimostrando in questo modo che le azioni dell’ONU stanno sortendo un qualche effetto come anche dichiarato da John Fisher, direttore de Human Rights Watch di Ginevra.

L’imbarazzo però non è stato solo Cinese, ed ha rapidamente raggiunto anche l’occidente, grazie alla natura interconnessa della nostra economia. Gli uiguri schiavizzati infatti vengono utilizzati e messi al lavoro in fabbriche che si trovano nelle catene di approvvigionamento di almeno ottantatre noti marchi globali nei settori della tecnologia, dell’abbigliamento e automobilistico, tra cui Apple, BMW, Gap, Huawei, Nike, Samsung, Sony, Volkswagen etc.

Nello specifico, il rapporto dell’Australian Strategic Policy Institute dimostrava come gli uiguri stiano producendo le fotocamere per iPhone Apple. Naturalmente tutte le grandi case coinvolte dall’inchiesta si sono affrettate a dichiarare che sono “dedicate a garantire che tutti nella nostra catena di approvvigionamento siano trattati con la dignità e il rispetto che meritano” (Apple) e che “richiedono che tutti i nostri fornitori rispettino le norme internazionali sul lavoro e le leggi applicabili come condizione per fare affari con noi” (Huawei), concludendo che “si impegnano a rispettare gli standard internazionali del lavoro a livello globale” (Nike) ma al momento non è noto alcun reale provvedimento concreto per ostacolare l’uso degli schiavi uiguri nelle convenienti filiere produttive cinesi.

La vicenda della nuova schiavitù getta una luce fondamentale sul nostro mondo, e riassume in sé molte delle contraddizioni di questa narrazione a cui siamo sottoposti ogni giorno. Dimostra come i fenomeni di ammodernamento della Cina non hanno portato, come teorizzato da molti, troppi, ad un risveglio delle coscienze nel continente asiatico, ma che al contrario ha permesso alle nostre stesse aziende di riportare indietro l’orologio di 100 anni in tema di diritti umani e rispetto dei lavoratori.

Dimostra ancora una volta come i musulmani, contrariamente alla narrazione impostasi dopo l’11 settembre, siano in realtà per lo più perseguitati nel mondo più che rappresentare quella minaccia, al modo di vivere euroamericano, tanto decantata.

Sancisce inoltre che questo sistema presenta, in nome della libertà di mercato, un sacrificio enorme in termini di umanità, l’ennesima “libbra di carne” che si va ad aggiungere alla questione climatica, quella sanitaria e tutti gli altri ambiti per cui l’élite culturale europea si sta improvvisamente svegliando, scoprendo che questo paradiso assomiglia sempre più ad un “sepolcro imbiancato”.

di Tanator Tenabaun