Per fattori storici, i Balcani si ritrovano in una posizione di bilico, in precario equilibrio tra l’appartenenza alla sfera culturale e spirituale dell’Europa, e gli arcaismi e i levantinismi tipici dei popoli sottoposti alla plurisecolare dominazione turca. Queste sfere non sono per forza in contraddizione, ma non è detto che la “promessa europea” possa essere risolutiva.
Esiste una zona geografica, nel cuore dell’Europa, che più di ogni altra è caratterizzata da una composizione etnica e culturale estremamente varia: si tratta dei Balcani, e più precisamente l’ex Jugoslavia.
Il ricordo delle guerre che hanno versato così tanto sangue nelle Repubbliche jugoslave, è ancora vivido, ed è una prova dell’estrema difficoltà della convivenza tra così numerose e diverse comunità etniche. Negli ultimi anni l’Unione Europea ha intrapreso diversi passi volti ad allargarsi nella ex Jugoslavia e ad integrare i paesi dell’area al proprio sistema.
Il primo passo formale è stato compiuto con la conferenza di Berlino del 24 agosto 2014, nel corso della quale è stato avviato un meccanismo di cooperazione intergovernativa sul tema delle infrastrutture e degli investimenti economici nel sud-est europeo, che ha portato ad un primo risultato con l’istituzione della Comunità dei Trasporti dell’Europa Sud-Orientale, in seguita alla firma del Trattato di Trieste avvenuta il 9 ottobre 2017.
Negli intenti, l’obiettivo della Comunità istituita è lo sviluppo della rete dei trasporti tra l’Unione Europea e gli stati dei Balcani occidentali: strade, ferrovie, navigazione interna e trasporto marittimo. In questa sede sono state estese le regole, i principi e le politiche dell’Ue nell’ambito dei trasporti anche ai paesi dell’Europa sud-orientale.
Più in generale, con il processo avviato a Berlino nel 2014, ci si propone di sostenere i paesi dei Balcani occidentali – Albania, Bosnia Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Serbia e Montenegro – nel processo di adesione all’Ue, nonché incoraggiare una più stretta cooperazione regionale. Tra questi paesi, quello che pare essere sempre di più sulla via dell’adesione è la Serbia, che dopo aver firmato il trattato di stabilizzazione e associazione con l’Unione Europea a Lussemburgo il 29 aprile 2008, e aver presentato formale domanda di ammissione il 22 dicembre 2009, ha ottenuto lo status ufficiale di paese candidato nel corso della riunione del Consiglio Europeo tenutasi il 1 marzo 2012.
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I negoziati per l’adesione vera e propria della Serbia sono iniziati il 21 gennaio 2014, congiuntamente con l’estensione ad essa dello strumento di assistenza pre-adesione, ovvero il meccanismo di finanziamento dell’Unione Europea ai paesi candidati all’ingresso, e che per il periodo prefissato 2014-2020 è previsto che porti a Belgrado un totale di 1 miliardo e 539 milioni di Euro circa.
L’assistenza dell’Ue a favore della Serbia per il periodo 2014-2020 è volta a sostenere il paese nel suo percorso specifico verso l’integrazione europea, in linea con la strategia di allargamento, che evidenzia l’importanza di occuparsi in via prioritaria delle questioni essenziali durante il processo di adesione quali la riforma della pubblica amministrazione ed il rafforzamento dello stato di diritto. Tuttavia, permangono, su quest’ultimo punto, diverse incognite, a causa principalmente delle pulsioni nazionalistiche che permangono tanto a livello governativo quanto a livello popolare, che si esprime nel rifiuto di riconoscere l’indipendenza del Kosovo, mentre nei Balcani in generale continuano a persistere tensioni intercomunitarie e difficoltà di convivenza tra le varie etnie.
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Un punto, quest’ultimo, che necessita di un approfondimento e di qualche excursus storico, onde comprendere le problematiche che continuano ad affliggere in particolare i paesi della ex Jugoslavia, e gli ostacoli che si frappongono alla loro definitiva adesione all’Unione Europea.
Stato dei rapporti interetnici
Ciascuna delle ex Repubbliche jugoslave conserva un gran numero di minoranze etniche, la cui presenza, anche se le condizioni alla base delle guerre civili hanno cessato di esistere, è ancora fonte di tensioni e controversie. Ciò rende l’identità nazionale e culturale dei popoli dei Balcani estremamente problematica, insieme ad una contraddizione di base. Da un lato, sono popoli con forti peculiarità e importanti patrimoni storici, che hanno reso un paese come la Serbia un centro considerevole del cristianesimo. Inoltre, la Serbia è stata anche la culla di un impero che, al momento della massima forza, durante il dominio di Stefan Uros Dusan il Quarto, dal 1346 al 1371, fu esteso agli attuali territori di Montenegro, Macedonia, Bosnia, Albania, Croazia meridionale e Grecia settentrionale, e che all’epoca era una delle nazioni più avanzate e culturalmente evolute in Europa.
L’eredità storica dell’Impero serbo ha ispirato la nascita del mito della Grande Serbia, avvenuta con la teoria formulata in un documento chiamato “Nacertanije“, scritto dal ministro serbo Ilija Garasanin nel 1844, secondo il quale gli attuali territori popolati da bulgari, macedoni, albanesi, montenegrini, bosniaci, ungheresi e croati fanno tutti parte della Grande Serbia e l’influenza culturale serba avrebbe dovuto diffondersi in queste terre.
Questo piano è stato tenuto segreto fino al 1967 ed è stato interpretato come un modello per l’unificazione nazionale serba, con lo scopo di rafforzare la posizione serba all’interno della Federazione jugoslava, inculcando l’ideologia nazionale serba e filo-serba in tutti i popoli circostanti.
D’altra parte, il dominio ottomano cui i paesi dei Balcani erano stati sottoposti dal XV secolo al 1878, nel caso di Bulgaria, Serbia, Montenegro e Bosnia, nel 1913 nel caso di Albania, Kosovo e Macedonia, era stato soffocante frustrante per la forte sensibilità identitaria di questi popoli, e il fatto che le culture popolari di tali paesi presentino diverse e profonde caratteristiche levantine, frustrano ulteriormente i sentimenti di molti che guardano indietro ai tempi in cui c’erano imperi autoctoni e potenti, e una cultura peculiare e ricca.
Molti analisti condividono l’idea che oltre quattro secoli di oppressione turca nella regione abbiano creato, e aumentato nel corso degli anni, un enorme carico di odio che, una volta riconquistata l’indipendenza, andavano sfogati.
Tra la fine della presenza turca nella regione, nel 1913, e lo scoppio della guerra civile, nel 1991, ci sono stati 78 anni, dei quali 27 vissuti sotto un regno unitario (1918-1945) e 46 sotto il giogo di un regime comunista (1945-1991).
Quando cadde il muro di Berlino, cadde anche la ragione per tenere insieme le varie repubbliche jugoslave, perché la principale ragione unificante, l’ideologia comunista, aveva cessato di esistere nelle sue forme novecentesche. Come è accaduto negli altri paesi dell’Europa orientale, dove i nazionalismi erano stati subordinati all’ideologia e all’imperialismo sovietico, in Jugoslavia hanno preso il sopravvento le peculiarità nazionali e le rivendicazioni di ciascuna Repubblica, ma contrariamente agli altri paesi, vi era un odio accumulatosi che premeva verso la superficie.
Dato che i turchi non erano più lì, l’odio è stato proiettato su quelli che erano più simili a loro, ovvero i bosniaci e gli albanesi. Tra i vari motivi alla base delle guerre civili jugoslave degli anni ’90, questo è uno dei principali.
Per quanto riguarda il concetto di nazione, abbiamo visto che nei Balcani questo si basa su un ideale comunitario etnico, al di sopra di quello omogeneo culturale, e che i territori percepiti come patria della nazione sono tutti quelli che hanno visto, anche molti secoli prima, la presenza di questa o quella comunità.
Ciò trascina con sé diverse conseguenze: la prima è che la presenza di una minoranza etnica e culturale non è accettata dalla popolazione, indipendentemente dal suo senso di appartenenza e lealtà verso lo Stato; l’altro è che, indipendentemente dal livello di tolleranza e politiche inclusive attuate dalle autorità, una minoranza o sente di appartenere di più alla sua comunità, e considera il suo stato di parentela come la vera patria, o cerca l’indipendenza del regioni in cui sono la maggioranza.
Conclusione
Questo viaggio all’interno delle contraddizioni e delle inquietudini che caratterizzano a tutt’oggi i Balcani per il momento si interrompe qui, pur nella consapevolezza che molto ancora ci sarebbe da dire su tale realtà per fornirne un quadro completo ed esauriente.
Per fattori storici, i Balcani si ritrovano in una posizione di bilico, in precario equilibrio tra l’appartenenza alla sfera culturale e spirituale dell’Europa, e gli arcaismi e i levantinismi tipici dei popoli sottoposti alla plurisecolare dominazione turca. Il fatto che le uniche repubbliche ex jugoslave ad essere state già ammesse nell’Unione Europea, ovvero Slovenia e Croazia, abbiano al contrario una storia altrettanto lunga di appartenenza all’Impero Austriaco, e quindi una cultura più schiettamente mitteleuropea, è in tal senso significativo.
Il che può far sorgere delle incomprensioni, quando non delle incompatibilità tra le concezioni sociali diffuse a livello popolare nei paesi di questa regione e quelli che sono gli standard minimi di democrazia liberale previsti dell’Unione Europea – pur se attualmente messi in discussione da paesi come Ungheria e Polonia.
Chiunque abbia avuto modo di visitare questi paesi, ha chiara la percezione di quanto si tratti di una realtà complessa che non può essere vista e giudicata in un’ottica eurocentrica ed occidentalista, ma anche di come, ritenuta la vantaggiosità dell’adesione per entrambe le parti, il processo di integrazione non potrà che essere accidentato. Solo un lungo lavoro di educazione civica e sociale da parte dei governi locali, combinato con la paziente attesa da parte dell’Unione Europea, potrà portare ad un felice esito del percorso iniziato nel 2008. Il nuovo inviato speciale dell’Unione Europea, lo slovacco Miroslav Lajčák nominato pochi giorni fa, avrà il difficile compito di sbrogliare parte della matassa e facilitare un accordo tra Serbia e Kosovo, imprescindibile per il futuro della regione.
di David Cardillo