Le proteste popolari scatenate dal risultato delle elezioni in Bielorussia hanno riportato alla memoria di molti, gli eventi avvenuti in Ucraina nel 2014. Le differenze tra quanto successo a Kiev e quanto sta ora accadendo a Minsk sono numerose, ma un epilogo diverso della storia dipenderà dalle azioni degli attori esterni.
Il 9 di agosto del 2020 la popolazione della Bielorussia si è recata alle urne per le elezioni presidenziali. Il paese è guidato da Aleksandr Lukašenko sin dal 1994 quando questi vinse la prima consultazione veramente democratica tenutasi a Minsk. Il dominio incontrastato del leader bielorusso è durato così a lungo grazie ad uno stile fortemente autoritario che gli ha guadagnato l’appellativo di “ultimo dittatore d’Europa”.
I risultati ufficiali delle elezioni del 2020 hanno visto il Presidente uscente prevalere, in maniera tutt’altro che inaspettata, con l’80% delle preferenze, anche a seguito dell’esclusione di 10 candidati dalla competizione. Il principale rivale di Lukašenko alle consultazioni presidenziali di agosto era Svetlana Tsikhanovskaja, la quale, dalla Lituania ove si è rifugiata, non ha riconosciuto il risultato delle urne, affermando che le elezioni fossero state viziate da forti brogli e sottolineando che secondo i dati a sua disposizione ella avrebbe dovuto ottenere il 60-70% dei voti.
Il popolo bielorusso è sceso nelle piazze del paese contestando duramente il regime insediatosi ormai 26 anni fa ed il neoeletto Lukašenko ha mobilitato gli apparati di sicurezza dello stato per sedare le rivolte. Nei primi giorni di durissimi scontri ben 3.000 attivisti sono stati arrestati e si sono registrate persino due vittime. Non è la prima volta che la popolazione è in tumulto a seguito dell’insoddisfacente esito delle elezioni, in quanto situazioni analoghe si erano già verificate nel 2010 e nel 2015. Eppure questa volta Lukašenko sembra davvero essere con le spalle al muro.
Del resto, le performance economiche della Bielorussia sono assolutamente insoddisfacenti, considerando il fatto che lo stipendio medio si aggira attorno ai 500 dollari al mese ma è rimasto invariato negli ultimi dieci anni, segnale di una pesante stagnazione economica, a dispetto di una crescita imponente quale quella registrata nel decennio precedente, quando il salario medio era di 50 dollari al mese. Il sistema che regola l’economia della Bielorussa è molto simile a quello in vigore ai tempi dell’Urss, in quanto prevede un reddito minimo per tutti ed ampi servizi di welfare pubblico, forniti da grandi imprese di stato, che accompagnano la vita dei cittadini dal momento della loro nascita a quello della loro dipartita. Se gli anziani cresciuti in epoca sovietica si trovano decisamente a loro agio grazie alle certezze garantite da tale sistema, i giovani nati dopo la caduta del Muro di Berlino e la dissoluzione dell’Urss hanno abbandonato in massa il paese, decisamente insoddisfatti rispetto alle prospettive economiche di una vita in Bielorussia.
A peggiorare la situazione vi è il fatto che i sussidi provenienti dal principale alleato di Minsk, ovvero il Cremlino, sono diminuiti a partire dal 2014. Ciò è stato determinato dal regime di sanzioni imposto alla Federazione Russa a seguito dell’annessione della Crimea e della guerra sporca nel Donbass e dal calo dei prezzi degli idrocarburi, che hanno gravemente danneggiato l’economia russa costringendo Mosca a rivedere le proprie politiche di sostegno agli alleati.
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Le cose per Minsk sono peggiorate ulteriormente con l’esplosione della pandemia mondiale dovuta alla diffusione del covid-19 che è andata ad inserirsi in un contesto economico già molto fragile. Il sistema è passato dalla stagnazione ad una fase di profonda recessione che ha portato il Pil del paese a contrarsi fino ai livelli del 2010.
Ciò è avvenuto nonostante il governo bielorusso abbia assunto una postura totalmente negazionista nei confronti del coronavirus, posizione che ha sollevato alcune perplessità persino a Mosca. Sebbene dunque Minsk non abbia mai chiuso le attività produttive, il generale arretramento dell’economia globale si è fatto sentire con forza entro i confini del paese.
Fatta eccezione per gli apparati militari e di sicurezza dello stato, la maggior parte della popolazione si è rivolta al proprio governo per cercare di uscire da una situazione economica che sembra avviata verso una fine disastrosa, nella speranza di ottenere alcune concessioni rispetto alle necessarie riforme strutturali che potrebbero consentire al paese di tornare su un binario di crescita. Ecco perché i cittadini bielorussi avevano cominciato a riporre le proprie speranze su di alcune personalità del mondo imprenditoriale, decisamente più orientate verso la modernizzazione dell’economia del paese, quali Babariko, Tsikhanovskij e Tsepkalo ma la risposta del regime non si è fatta attendere: i primi due uomini si trovano ora dietro le sbarre mentre il terzo è stato costretto all’esilio.
L’emergere di tali personalità è stato un evento senza precedenti nella storia recente della Bielorussia in quanto nessun esponente dell’opposizione era mai riuscito nell’impresa di ottenere un così ampio sostegno, dimostrato inoltre dall’andamento dei sondaggi. Questi ultimi davano per la prima volta Lukašenko come sconfitto ed il numero di persone che partecipavano ai comizi pubblici di Babariko, Tsikhanovskij e Tsepkalo era decisamente più elevato rispetto a quanto fosse mai accaduto in precedenza ad un rivale del Presidente. Il comportamento repressivo adottato dal regime ha senza ombra di dubbio contribuito a rafforzare il malcontento della popolazione già piuttosto diffuso a causa delle pessime performance economiche e della fallimentare gestione della pandemia globale e ciò è risultato evidente considerando la grande mobilitazione popolare che ha sostenuto l’impegno di tre donne scese in campo a seguito degli eventi repressivi che avevano colpito i tre leader dell’opposizione.
Dopo gli arresti dei rispettivi mariti, Svetlana Tsikhanovskaja e Veronika Tsepkalo hanno preso l’importante decisione di scendere in campo per candidarsi alle elezioni presidenziali, con l’aiuto di Maria Kolesnikova, in precedenza manager della campagna elettorale di Babariko. Soltanto la prima di esse è riuscita a veder accettata la propria candidatura, trasformandosi immediatamente nella principale rivale del regime di Lukašenko. La donna ha dichiarato di non essere interessata alla politica, ma di essersi messa in gioco con l’obiettivo di costruire una nuova Bielorussia, di portare avanti un programma di riforme economiche in grado di condurre il paese fuori dalla recessione e di riformare la giustizia, cominciando con la liberazione dei prigionieri detenuti per reati “politici”.
Sebbene il suo programma non fosse del tutto definito e non fossero chiare le politiche che avrebbe voluto adottare per raggiungere tali ambiziosi risultati, ella ha dichiarato che qualora fosse stata eletta avrebbe indetto nuove consultazioni elettorali entro sei mesi, questa volta veramente libere.
In base agli exit poll di Radio Free Europe/Radio Liberty, Tsikhanovskaja poteva contare sull’85% delle preferenze contro un misero 4% di Lukašenko.
Il giorno dopo la pubblicazione dei risultati delle consultazioni elettorali, che, come detto, hanno registrato una schiacciante vittoria per il Presidente uscente, ella ha deciso di abbandonare il paese ed ha pubblicato un video ove spiega le motivazioni di tale gesto. Secondo quanto affermato dalla donna, ella avrebbe ricevuto enormi pressioni da parte degli organi di sicurezza e temendo per l’incolumità propria e dei propri figli ha preferito cercare rifugio in Lituania.
Dal momento dell’esplosione del malcontento popolare, sfociato in violenti scontri con le forze dell’ordine, il Cancelliere tedesco Angela Merkel non ha fatto mancare il proprio sostegno alle opposizioni. Ciò non è piaciuto al Cremlino, visto che il Presidente Vladimir Putin si è affrettato ad esprimere il proprio rammarico per le affermazioni della controparte tedesca, sottolineando che l’Occidente avrebbe dovuto rimanere fuori dagli affari interni della Bielorussia. Contemporaneamente, Lukašenko ha dichiarato che lo stesso Putin gli avrebbe riferito di essere disposto a fornirgli tutto l’appoggio necessario a riportare la situazione sotto controllo.
Parrebbe facile il paragone con gli eventi di Maidan del 2014 che portarono all’esautorazione del governo guidato da Janukovič eppure vi sono alcune importanti differenze di cui tenere conto. Rispetto all’Ucraina, la popolazione di etnia russa sul totale della popolazione bielorussa non occupa una quota così rilevante, aggirandosi attorno all’8%, ma si tratta comunque della principale minoranza del paese. Inoltre, a differenza di Kiev, Minsk fa parte di tutte le organizzazioni regionali principali a guida russa, quali l’Unione Statale Russia-Bielorussia, la Collective Security Treaty Organization e l’Unione Economica Eurasiatica. In particolare, i regolamenti commerciali di quest’ultimo ente non sono compatibili con quelli dell’Unione Europea.
Vi è un’altra fondamentale differenza rispetto a quanto avvenuto in Ucraina nel 2014. Il governo di Kiev si apprestava infatti a firmare un Association Agreement con la Ue, parte del programma di Eastern Partnership voluto dalle istituzioni di Bruxelles per consentire ai paesi dell’Europa Centrorientale che avessero voluto aderirvi, di armonizzare la propria legislazione con gli standard richiesti dall’Unione Europea. Il repentino voltafaccia di Janukovič a pochi giorni dalla firma dell’accordo, dovuto alle pressioni ed alle prebende provenienti dalla Russia, aveva determinato l’inizio delle proteste del popolo ucraino, che vedeva la partnership con la Ue come ultima possibilità per uscire dalla grave situazione politico-economica in cui versava il paese.
Nel caso della Bielorussia, però, non vi è in ballo alcun accordo europeo, nonostante il paese abbia aderito alla Eastern Partnership nel 2009. Bisogna tenere presente che Lukašenko, come molti altri leader dello spazio post-Sovietico, aveva più volte allentato e poi rinsaldato i propri legami con Bruxelles nella speranza di ottenere maggiore potere negoziale e maggiori vantaggi nei propri rapporti con Mosca. Il Cremlino lo aveva persino “punito” vietando l’importazione di 500 differenti tipologie di prodotti caseari bielorussi all’interno del mercato della Federazione Russa, con grave danno per Minsk che è il quinto produttore mondiale di latticini, oppure tagliando le forniture energetiche.
Del resto, anche i legami economici tra Russia e Bielorussia sono decisamente più stretti di quelli che intercorrevano tra Mosca e Kiev nel 2014. Basti considerare che Minsk gode di numerosi sussidi a sostegno della propria economia provenienti proprio dal vicino russo ed è quasi totalmente dipendente dalla Federazione per i propri approvvigionamenti energetici. Secondo l’Unctad, nel 2019 la Russia ha coperto il 99% del fabbisogno di gas e petrolio della Bielorussia ed in base ai dati di Sipri, Minsk importa il 100% dei propri armamenti da Mosca. Inoltre, la Federazione Russa consente al proprio junior partner di rivendere parte delle proprie forniture energetiche a prezzo maggiorato, visto che il governo bielorusso le acquista ad un prezzo inferiore rispetto a quello di mercato. Tale rivendita genera profitti pari al 10% dell’intera spesa pubblica, ovvero una quota pari al 3% del Pil. Infine, a livello commerciale la Russia è il primo partner della Bielorussia essendo essa destinataria del 49% dei beni prodotti da Minsk.
L’integrazione tra i due paesi sembra dunque molto più profonda di quella che esisteva tra Mosca e Kiev all’epoca della crisi che portò all’annessione russa della Crimea. Come l’Ucraina, poi, anche la Bielorussia riveste una fondamentale importanza strategica per la Federazione in quanto l’alleanza con Minsk consente alla Russia di possedere una maggiore profondità strategica rispetto all’Europa Occidentale nonché di mantenere un maggiore controllo dell’asse viario Mosca-Berlino.
Appare piuttosto difficile, dunque, pensare che la Russia possa consentire l’insediamento di un governo sostenitore di politiche filo-occidentali senza intervenire per proteggere i propri interessi nazionali, soprattutto nel caso in cui suddetto governo operi un riorientamento del paese verso l’Occidente. Ecco perché è difficile aspettarsi che Putin rimanga spettatore degli eventi in corso a Minsk, soprattutto qualora i paesi occidentali cominciassero a supportare attivamente l’opposizione al regime di Lukašenko, sebbene per ora il movimento di protesta non abbia fatto riferimento all’integrazione del paese nelle strutture della Ue. Del resto è stata da subito evidente la mancanza di bandiere dell’Unione Europea tra i manifestanti, al contrario di quanto accaduto in Ucraina nel 2014.
L’unico paese dell’Unione che otterrebbe alcuni vantaggi in termini di influenza sull’Europa Orientale, sia in modo diretto, sia attraverso l’Unione Europea è proprio la Germania, la quale è il principale competitor della Federazione Russa per quanto riguarda il controllo dello spazio post-Sovietico. Non è un caso che sia stata proprio Angela Merkel la più attiva nel far sentire la propria vicinanza ai manifestanti bielorussi. Rimane da chiedersi quale sarebbe il tornaconto degli altri paesi membri dell’Unione Europea nel perseguire una politica di interferenza negli affari interni della Bielorussia, soprattutto in ragione del fatto che il paese rimane fortemente integrato con la Russia e riveste un’importanza strategica straordinaria per il Cremlino.
Vladimir Putin ha già dimostrato di non avere alcuno scrupolo nel ricorrere alla forza per difendere gli interessi del proprio paese, come accaduto nei conflitti con l’Ucraina e la Georgia. La formazione di un nuovo frozen conflict e la creazione di un nuovo focolaio di instabilità ai confini orientali dell’Unione Europea non gioverebbero granché agli interessi commerciali dei principali paesi Ue, esclusa la Germania. Per non parlare del fatto che una nuova ondata di sanzioni nei confronti di Mosca causata da un eventuale intervento militare di quest’ultima, simili a quelle che furono imposte alla Russia in occasione dell’annessione della Crimea e della guerra nel Donbass proprio grazie alle forti pressioni di Berlino, danneggerebbe ulteriormente le imprese dell’Europa Occidentale che intrattengono forti relazioni commerciali con la Federazione Russa. Tra queste vi sono anche molte compagnie tedesche ma, nel 2014, il mondo imprenditoriale della Germania si è stretto in maggioranza attorno alle posizioni del proprio governo, in cambio dell’appoggio incondizionato di quest’ultimo al progetto Nord Stream 2, fortemente osteggiato dai paesi Visegrad.
Una tale politica da parte dell’Unione Europea, poi, porterebbe l’organizzazione ad incorrere nuovamente in quella che a Mosca denunciano quale logica del “doppio standard”, in quanto, per giustificare le proprie interferenze, Berlino ed i propri accoliti dovrebbero fare appello al rispetto dei diritti umani e proseguirebbero nella condanna del regime bielorusso bollandolo quale autoritario e come tale inaccettabile in base ai principi propugnati dall’organizzazione. Organizzazione che però ha garantito la membership all’interno delle proprie strutture a paesi che difficilmente potrebbero essere identificati come democratici, viste le politiche perseguite in tema di diritti umani e stato di diritto.
Ad ogni buon conto, il 19 agosto l’Unione Europea si è espressa negativamente rispetto al riconoscimento delle elezioni tenutesi in Bielorussia, pertanto l’organizzazione a guida tedesca non ha avvallato il risultato delle consultazioni, ritenendo illegittima la nomina di Lukašenko a Presidente del paese.
Per parte russa, è lecito aspettarsi una strategia attendista. Visto il sempre più scarso sostegno di Mosca nei confronti dello stesso Lukašenko, è probabile che Putin favorirà l’emergere di una figura non compromessa con il regime, la quale inoltre non abbia posizioni antagonistiche nei confronti della Federazione Russa, spingendo per un pacifico passaggio di consegne tra Lukašenko ed un’opposizione che a Mosca considererebbero “moderata”, in quanto non avrebbe intenzione di mettere a rischio il rapporto privilegiato che lega la Bielorussia e la Federazione. Ciò sarà possibile soltanto se l’Occidente dovesse decidere di limitare la propria interferenza, evitando di polarizzare lo scontro in atto nel paese. Diversamente, le cose potrebbero veramente degenerare fino all’esplosione di un nuovo conflitto alla periferia dell’Europa.
di Riccardo Allegri