Il conflitto fra Armenia e Azerbaijan è la disputa di più lunga durata fra quelle che hanno caratterizzato l’area post-sovietica sin dal crollo dell’URSS. Al centro delle tensioni che coinvolgono le due ex repubbliche sovietiche vi è la questione riguardante lo status del Nagorno-Karabakh, regione contesa incastonata fra i due Stati.
Il dissidio fra Baku e Erevan in merito alla natura di quest’area è sorto già prima che i due Paesi proclamassero la propria indipendenza da Mosca. Nel febbraio del 1988, infatti, il soviet regionale passò una risoluzione che richiedeva che la regione fosse trasferita dalla giurisdizione della repubblica sovietica dell’Azerbaijan all’Armenia; una decisione che diede vita contemporaneamente a grandi manifestazioni di supporto a Erevan, ma di forte opposizione a Baku.
Il territorio riveste un’importanza simbolica fondamentale per entrambe i Paesi. Per gli armeni, il Karabakh (riconosciuto come Artaskh da Erevan) è una regione storica della loro nazione, attribuita ingiustamente all’Azerbaijan negli anni Venti dall’allora commissario per le nazionalità Josip Stalin.
Una dimostrazione, secondo Erevan, sarebbe la presenza di numerose chiese armene nella regione e il fatto che questa sia popolata in maggioranza da individui di etnia armena. Anche gli azeri, tuttavia, invocano forti legami storico-culturali con la regione, sede per secoli di un khanato musulmano intorno la città di Shusha, luogo natale di musicisti e artisti nazionali.
Sin dalla fine dell’Unione Sovietica, nel territorio del Nagorno-Karabakh sorge uno Stato de-facto, sebbene con profondi legami con l’Armenia, che, tuttavia, non è riconosciuto neppure da Erevan. La regione è stata fra il 1992 e il 1994 al centro di un vero e proprio conflitto, che ha causato oltre 30mila morti e conclusosi con un cessate il fuoco che non si è mai trasformato in un vero e proprio trattato di pace.
Sin da quel momento, l’Armenia ha il controllo non solo del Nagorno-Karabakh, ma anche parzialmente o interamente, di sette altre regioni che lo circondano, e che lo collegano via terra al resto del territorio armeno, e che sino ad allora avevano ospitato oltre mezzo milioni di azeri. Tuttavia, va sottolineato come questo controllo diretto non si sia mai trasformato negli anni in un riconoscimento da parte della comunità internazionale della situazione sul territorio, anzi, nel 2008 la risoluzione 62/243 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha chiesto il ritiro delle forze armene dai territori occupati.
Sebbene la disputa il Nagorno-Karabakh sia spesso stata definita come un frozen conflict, gli scontri a fuoco che hanno avuto inizio lo scorso 27 settembre non sono i primi registrati lungo la Linea di Conflitto nel corso degli ultimi 26 anni.
Nell’aprile 2016, un’offensiva azera aveva permesso a Baku di riconquistare alcuni territori strategici, causando oltre 200 morti. L’ultima escalation sembra, tuttavia, avere un carattere molto più violento rispetto a quello del 2016, durata solo quattro giorni. Un esempio è l’immediata dichiarazione da parte delle autorità azere, armene e dello Stato de-facto del Nagorno-Karabakh della legge marziale, iniziativa che non era stata adottata nel 2016. Tuttavia, è difficile affermare che le tensioni dell’ultimo mese siano giunte all’improvvise, visto che già nel mese di luglio si erano registrate delle schermaglie fra gli eserciti di Erevan e Baku lungo il confine fra i due Paesi.
Le ragioni dietro quest’ultima escalation sono diverse. La principale è probabilmente la crescente frustrazione da parte delle autorità azere rispetto all’incapacità di risolvere la questione tramite via diplomatiche, un sentimento esplicitato dal presidente azero Ilham Aljev anche durante il suo discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite lo scorso 25 settembre.
La rivoluzione di velluto e l’avvento al potere in Armenia di un primo ministro, Nikol Pashinyan, con nessun legame personale con il Nagorno-Karabakh, aveva aumentato le speranze a Baku, e non solo, riguardo la risoluzione pacifica del conflitto. Tuttavia, Pashinyan si è dimostrata nella realtà dei fatti ancora più intransigente dei suoi predecessori, come dimostrano le richieste da lui avanzate di includere i rappresentanti dell’autoproclamatasi repubblica del Nagorno-Karabakh nei negoziati di pace.
Un ulteriore fattore potrebbe essere il supporto molto più deciso offerto da Ankara a Baku. La Turchia si è sempre schierata, infatti, affianco al suo alleato azero, visto che con tale nazione condivide forti legami etnico-culturali. Negli ultimi anni, tuttavia, il rapporto fra i due vicini è divenuto ancora più intenso, come evidenziato dalla vendita di alcuni armamenti cruciali per una possibile vittoria militare azera, come i droni Bayraktar, che hanno già permesso all’esercito turco di ribaltare le sorti del conflitto libico.
Erdogan è stato, inoltre, il solo dei leader internazionali a non aver lavorato per un immediato cessato il fuoco, accusando l’Armenia di essere “la più grande minaccia per la pace nella regione”. Il presidente turco ha inoltre assicurato al suo omologo azero che “la nazione turca si pone con tutti i suoi mezzi a fianco dei suoi fratelli e delle sue sorelle dell’Azerbaijan”.
Il conflitto in Nagorno-Karabakh rischia di trasformarsi nell’ennesima guerra per procura combattuta da Russia e Turchia, aggiungendosi a quelle in Libia e Siria. L’Armenia è infatti un alleato di Mosca ed è parte della CSTO, alleanza militare di cui sono parte anche Kirghizistan, Kazakistan, Bielorussia e Tajikistan.
Un’eventuale offensiva azera nei confronti di obiettivi collocati sul territorio dell’Armenia potrebbe attivare le clausole che permetterebbero a Erevan di richiedere il supporto militare dell’organizzazione, che, tuttavia, difficilmente giungerebbe visto il legame culturale di Bishek e Nursultan con Ankara.
La posizione di Mosca è, inoltre, molto più ambigua rispetto a quella di Ankara. Sebbene Erevan sia un suo alleato, la Russia coltiva ottimi rapporti anche con Baku, a cui continua a vendere armamenti. Il mantenimento dello status quo sarebbe la soluzione ideale per la Russia, dato che le permetterebbe di continuare a esercitare un forte controllo sulle due ex repubbliche sovietiche. Al contrario, un aggravarsi delle tensioni sarebbe certamente una notizia poco gradita da Putin e il suo gabinetto, poiché obbligherebbe le autorità russe a prendere finalmente una posizione chiara a favore di Erevan.
La volontà di Mosca di cercare di mantenere lo status quo e calmare le acque è dimostrati dai tentativi falliti di far accordare le parti per un cessate il fuoco. Nel corso del mese di ottobre sono già due gli accordi di questo tipo raggiunti grazie all’egida russa, tuttavia, in entrambi i casi la tregua ha resistito solo pochi minuti. Stessa sorte ha avuto anche il cessate fuoco raggiunto in seguito alla pressione esercitata sui due contendenti da Washington.
Il principale ostacolo sulla via di un accordo è certamente la realtà militare che si sta sviluppando sul campo. Grazie soprattutto all’uso di strumenti militari innovativi, come i droni, le truppe di Baku sono state in grado di rovesciare la situazione che si era venuta a creare in seguito al conflitto avuto luogo fra il 1992 e il 1994. In particolare, l’Armenia rischia di essere completamente tagliata fuori dal Nagorno-Karabakh, visto il rischio di perdere il controllo sul corridoio di Lachin, che collega Erevan con la regione contesa.
Il perdurare degli scontri, tuttavia, potrebbe avere dei risvolti negativi anche per Baku e per l’intera comunità internazionale. La regione è, infatti, un crocevia fondamentale di numerosi gasdotti e oleodotti. La South Caucasus Pipeline, anche noto come gasdotto Baku-Tbilisi-Erzurum trasporta gas naturale di Shah Deniz in Azerbaijan verso la Turchia.
La South Caucasus Pipeline si estende in parallelo all’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan che trasporta il petrolio azero verso le coste mediterranee della Turchia; anche parte del petrolio grezzo estratto nei giacimenti di Turkmenistan e Kazakhstan viene trasportato tramite quest’oleodotto.
La risoluzione pacifica del conflitto appare, tuttavia, molto lontana. Per cercare di risolvere l’impasse è necessario pensare a soluzioni innovative, come la possibilità di dar vita a un’operazione di peacekeeping all’interno della regione, un’ipotesi mai realmente vagliata durante i negoziati.