L’Affare della Guerra

“How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb”

di Tanator Tenabaun

Volendo riconoscere un tratto realmente unico alle civiltà umane dell’emisfero boreale di questi ultimi quarant’anni è forse la supposizione, eccezionale nella storia dell’umanità, che la Guerra fosse un affare del passato. Una declinazione dell’agone geopolitico ormai alle spalle, sfogo di altre comunità umane considerate in qualche modo inferiori e soprattutto fattualmente ostacolato dall’introduzione delle armi atomiche. Senza voler indugiare nel tentativo ozioso di smascherare questa vana illusione, ci sarebbe da chiedersi quale è il significato che si vuole dare alla parola “guerra” e quando si considera che una nazione è in guerra. Invero il secondo conflitto mondiale ha lasciato nei popoli europei e pochi altri la convinzione che il conflitto bellico sia un momento in cui l’intera nazione viene coinvolta nel processo di distruzione e aggressione, quando invece nella storia dell’umanità è piuttosto comune che la guerra sia un’attività come un’altra la quale vien svolta al fianco di tutti gli altri processi caratteristici di una comunità organizzata. A voler interpretare il mondo in questo modo si potrebbe arrivare a dire che l’Impero Romano, l’Impero Britannico o l’Impero Spagnolo non siano mai stati in guerra poichè raramente i loro territori natali sono stati coinvolti nel conflitto, e naturalmente tale affermazione apparirebbe tragicamente risibile a tutti gli altri popoli del mediterraneo, all’India, all’Afghanistan o alle nazioni africane e amerinde. Siamo in Guerra, lo siamo sempre stati, e forse si potrebbe dire che, talvolta, l’opinione pubblica se ne ricorda, specialmente quando teme che questo affare di Stato influenzi le loro vite. 

La Guerra è solitamente un affare di necessità. Uno Stato, per sopravvivere e replicare sè stesso, oltre ad una complessa struttura burocratica di acquisizione e redistribuzione della ricchezza, ha la necessità di difendersi e, talvolta, di attaccare. La natura stessa delle nazioni prevede un tale stato di cose, e finché esisteranno questi organismi esisterà la guerra. Essa è per lo più un costo, e per quanto molte nazioni si affatichino a celebrare il loro spirito guerriero e la potenza dei loro armamenti, si tratta di un investimento a perdere. Sia nel caso in cui le armi vengano usate (per cui macchinari dal valore di milioni di euro vengono distrutti in pochi minuti) tanto nella misura in cui gli stessi armamenti risultino inutilizzati (ragion per cui ci si prodiga a rivenderli a nazioni disposte ad acquistare gli scarti del primo mondo). Partendo dall’impero Accadico, passando per quello Romano, arrivando ai succitati imperi Spagnolo e Britannico, gli eserciti e le loro armi sono stati un male necessario, una nota rossa di spesa sui conti dello stato solo parzialmente rinfrancata dalle conquiste, le razzie e i bottini di guerra. Fra tutte le nazioni egemoniche che hanno attraversato la storia terrestre una sola pare fare eccezione a questo assunto, una nazione che, al contrario delle altre, pare aver fatto della Guerra un investimento piuttosto redditizio, trasformando così un sistema in perdita in una delle fonti di arricchimento dello stato. Si tratta degli Stati Uniti d’America. 

Come questo è possibile? Cerchiamo di scoprirlo, per quanto, è dovere dirlo, la materia è talmente complicata da non poter essere risolta da questo piccolo intervento. 

Il mercato replica sé stesso

Senza dubbio non esiste una ragione specifica bensì ci troviamo innanzi ad un fenomeno multifattoriale dove vari elementi concorrono nel creare questo vantaggio unico che gli Stati Uniti d’America traggono dal prendere parte a scenari bellici. 

In primo luogo vi è senza dubbio l’industria delle armi.  Gli Stati Uniti hanno una delle industrie della difesa più grandi e avanzate al mondo. Le guerre e i conflitti aumentano la domanda di armamenti e tecnologie militari, portando a profitti significativi per le aziende del settore. Solo per dare un esempio in prospettiva, il 64% dei soldi investiti da Washinton in supporto all’Ucraina è tornato in patria. Al pari di questo vi sono ovviamente considerazioni relativamente al potere che una posizione egenomica garantisce anche per garantire il proprio posizionamento favorevole in dinamiche di mercato, partecipare a conflitti aumenta l’influenza geopolitica degli Stati Uniti, permettendo loro di stabilire alleanze strategiche e accedere a risorse naturali in altre regioni, vale oggi come valeva un tempo. Naturalmente anche altri paesi hanno interessi di natura economica negli scenari bellici (si pensi solo alla società russa Almaz-Antey nel contesto della guerra in Ucraina) ma nessun’altra nazione è riuscita mai a dare vita ad un vero e proprio circolo virtuoso di cui possano beneficiare a cascata ampi pezzi dello stato, arrivando a rendere la guerra, come per gli Stati Uniti d’America, un investimento sostanzialmente redditizio per tutti. Del resto questo meccanismo vantaggioso non è cosa degli ultimi anni al contrario è intrinsecamente scritto nella breve storia dello stato nord americano, e gli interessi economici furono determinanti già per il suo coinvolgimento nel primo conflitto mondiale. Considerando tutti questi aspetti vantaggiosi può sorgere il lecito dubbio che esistano forze economiche, interne agli stessi Stati Uniti d’America, che facciano pressioni sulla classe dirigente affinchè il loro paese sia sempre coinvolto in conflitti a bassa e media intensità. Tale dubbio in realtà si trasforma in fatti quando incontra la prova dei numeri: nel 2020, cinque dei maggiori appaltatori della difesa degli Stati Uniti (Lockheed Martin, Boeing, Northrop Grumman, Raytheon Technologies e General Dynamics) hanno speso complessivamente 60 milioni di dollari per influenzare le politiche governative. Negli ultimi due decenni, questi appaltatori hanno destinato 285 milioni di dollari a contributi elettorali e 2,5 miliardi a lobbying, assumendo oltre 200 ex funzionari governativi come lobbisti. Il Pentagono ha un budget annuale di 740 miliardi di dollari, di cui una parte significativa è destinata agli armamenti. Nel 2021, sono state approvate vendite di armi all’estero per 175 miliardi di dollari.

Tale ricerca del profitto è svolta a danno anche degli effettivi vantaggi strategici a riprova che è il guadagno puro a muovere la macchina. Si tenga infatti in considerazione che l’industria della difesa negli Stati Uniti svolge un ruolo centrale nel militarizzare la politica estera del paese, mantenendo uno stato di guerra perpetua. Nonostante la pandemia di COVID-19 e le conseguenti crisi economiche, il governo ha continuato a spendere massicciamente nel settore militare. I profitti dell’industria bellica non finiscono solo nelle tasche di dirigenti e azionisti, ma vengono usati per influenzare la politica, sostenendo una forma altamente militarizzata di intervento estero. Le aziende della difesa finanziano think tank e programmi di ricerca per promuovere politiche favorevoli all’intervento militare e posizionano i propri alleati in ruoli chiave nel governo.

Le vendite di armi, presentate come strumenti di influenza politica, in realtà non forniscono alcun vero “leverage”. Nonostante decenni di vendite di armi ai paesi del Golfo e ad altri alleati, gli Stati Uniti non sono riusciti a esercitare un controllo significativo su di loro, come dimostrato dagli esempi dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti nella guerra in Yemen. Le armi, invece di sostituire la presenza militare americana, spesso finiscono nelle mani sbagliate, contribuendo a conflitti in cui gli stessi Stati Uniti sono coinvolti.

Il settore della difesa statunitense ha sviluppato un complesso sistema di finanziamenti per la ricerca e l’influenza politica a sostegno delle politiche interventiste e di regimi di esportazione di armi più permissivi. Le aziende della difesa finanziano think tank e istituti di ricerca, come il Center for Strategic and International Studies (CSIS), che producono rapporti e analisi utilizzati per giustificare una politica estera aggressiva e per promuovere l’espansione del mercato delle armi. Molti di questi think tank ricevono ingenti donazioni da parte dei principali produttori di armi, influenzando direttamente le politiche governative.

Inoltre, i grandi clienti del settore della difesa, come gli stati del Golfo, finanziano think tank per promuovere regimi di esportazione più permissivi e per influenzare la politica estera degli Stati Uniti a loro favore. Questo sistema crea una simbiosi tra il settore privato e quello pubblico, in cui le decisioni politiche sono spesso guidate dagli interessi del settore della difesa.

La finanziarizzazione e la globalizzazione hanno ulteriormente ampliato l’influenza dell’industria della difesa, permettendo l’accesso a nuovi capitali e promuovendo investimenti in tecnologie militari e di sorveglianza. Questo sistema garantisce alti profitti per le aziende del settore, sostenuti da finanziamenti pubblici, e rende difficile per il governo mantenere un controllo efficace. Questa influenza del complesso militare-industriale (MIC) sulla politica estera risulta essere sostanzialmente bipartisan e ha interessato direttamente anche il presidente uscente Joe Biden.

Abbiamo già osservato i numeri degli investimenti dedicati all’influenza della politica estera ma soprattutto per la finalizzazione di contratti di acquisto i quali sono spesso monopolistici, come quelli per le armi nucleari, e altamente redditizi e protetti, anche in caso di fallimento tecnico dei sistemi sviluppati, come dimostrato dal controverso caccia F-35.

Il MIC giustifica la spesa militare sostenendo l’esistenza di pericoli esterni, come Russia, Cina e Iran, utilizzando vecchi schemi della Guerra Fredda per promuovere la necessità di nuove armi nucleari, come il missile balistico intercontinentale (ICBM) Ground Based Strategic Deterrent (GBSD) e il Long Range Standoff Missile (LRSO). 

Un vero prodotto americano 

Più della torta di mele l’industria bellica è il vero prodotto caratteristiico americano. Non intesa come pura e semplice industria delle armi ma proprio come industria legata alla Guerra. 

Ancora una volta non esprimiamo considerazioni di merito ma rivolgiamoci ai numeri.
Se osserviamo l’occupazione diretta nell’industria della difesa secondo il National Defense Industrial Association (NDIA) essa si compone di circa 2,5 milioni di persone. 

Naturalmente, poichè si tratta di un mercato, complesso, dobbiamo considerare anche l’occupazione indiretta, ovvero sia tutti quei posti di lavoro legati ai settori della logistica, della ricerca e sviluppo, e dei servizi di supporto, ed in questo caso il numero degli impiegati può superare i 3 milioni. Esistono poi le industrie  che forniscono logistica alle forze armate: Le stime variano, ma si ritiene che circa 1 milione di persone siano impiegate in settori che forniscono supporto logistico alle forze armate. 

Fino a questo momento abbiamo parlato del personale civile a cui va aggiunto, ovviamente il personale militare: circa 1,3 milioni di persone sono attualmente in servizio attivo nelle forze armate statunitensi, e inclusi i riservisti e la Guardia Nazionale, il numero totale sale a circa 2,1 milioni. Il numero totale è di una fluttuazione fra i sette i gli o otto milioni e mezzo di persone il cui guadagno dipende profondamente dal coinvolgimento costante degli Stati Uniti in conflitti bellici. Per avere un parametro di riferimento, in tutti gli stati uniti vi sono appena 1,8 milioni di Agricoltori e Allevatori, 3.2 millioni di insegnanti (considerando ogni grado di insegnamento, privato e pubblico), e poco più di 700 mila poliziotti

Senza dilungarsi oltre appare quindi evidente che esiste un mercato piuttosto florido di cui gli Stati Uniti si avvantaggiano, un traffico di danari che ha dei forti investitori i quali hanno anche la capacità di redistribuire la ricchezza prodotta nel sistema nazionale. Poiché questo è forse il punto su cui molti detrattori della politica statunitense, specialmente interni, devono comprendere: non si tratta di una macchina mortale che giova a pochi, al contrario, è un elemento fondante dell’economia americana e sarebbe difficile immaginare gli Stati Uniti d’America senza la loro macchina bellica. Tale aspirazione di trasformazione di questa superpotenza risulterebbe in una operazione di fantapolitica e richiederebbe un totale ripensamento di questa nazione, da un punto di vista strutturale ed economico prima ancora che sociale e culturale (ed in questo piccolo intervento abbiamo intenzionalmente scelto di non occuparci del ruolo fondamentale che le Guerre hanno in america da un punto di vista di gestione delle fasce povere, creazione del consenso, consolidamento del potere delle classi dirigenti ed altri aspetti non legati alla sfera economica ma non per questo meno importanti). 

Il futuro

Sulla soglia delle prossime elezioni americane sorge quindi un dubbio se vi sarà una concreta differenza nelle scelte politiche inerenti i conflitti bellici, grandi o piccoli che siano, ed è opinione di chi scrive che la risposta sia sì. Quello che è evidente è che la macchina del conflitto bellico non si fermerà, a prescindere da quali saranno i risultati elettorali, quelli che potrebbero cambiare sono gli scenari di investimento, poiché per realmente comprendere l’impegno statunitense bisogna considerare le guerre come mercati di investimento più che come nazioni e popoli in guerra. Esiste una strada che possiamo considerare un investimento sicuro, con un basso tasso di profitto ma con la garanzia di un guadagno sicuro e scarsi margini di perdita, e questi sono i conflitti in Medio Oriente. Molto probabilmente il Partito Democratico preferirà questo tipo di mercato (non si tratta di coinvolgimento in un conflitto, ma della partecipazione ad una azione economica) e in alternativa esiste il nuovo scenario Europeo che presenta simili vantaggi di investimento. Il Partito Repubblicano, dopo la svolta Trump, sembra invece intenzionato a rincorrere nuovi mercati, dove il rischio di andare in perdita è senza dubbio più alto ma i potenziali margini di guadagno sono molto più alti, ed in questo caso si tratta di aprire un conflitto con la Cina o comunque disturbando la sua area di influenza. In questa ottica anche un attacco all’Iran potrebbe essere preso in considerazione nella misura in cui certi processi di avvicinamento al gigante asiatico si siano maggiormente concretizzati. 

In questa piccola analisi si è scelto di essere asciutti, di esprimere i fatti per come è possibile ricostruirli dai numeri e provare a prevedere futuri investimenti che derivino da quegli stessi numeri. Questa seconda parte va ovviamente presa cum granum salis come tutte le previsioni, specialmente in economia, che non tengono conto dell’imprevisto. Quello che è mancato nella nostra analisi è l’empatia, il ricordare a chi legge che una macchina costruita sulle armi si basa su l’implicito assunto che quelle armi andranno usate, possibilmente ottenendo il massimo risultato, al fine da accontentare il cliente ed aumentare la domanda, poiché ricordiamo non sono armi costruite per proteggere un mercato ed un sistema, sono esse stesse il mercato ed il sistema. 

C’è un terrificante tritacarne dall’altra parte di questo meccanismo, che non è nostro compito analizzare ma che è bene ricordare che esiste.