Le popolazioni indigene sia come collettività che come persone hanno diritto al pieno godimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali così come sono riconosciuti nella Carta delle Nazioni Unite, nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo e nella legislazione internazionale sui Diritti Umani. Promesse tradite alla prova dei fatti.
Benvenuti nel futuro
Era il 1932 quando Huxley finiva di scrivere Brave new world, un romanzo ambientato nell’anno 632 dell’era Ford, (corrispondente al nostro 2540), che racconta di un mondo distopico dove gli esseri umani sono privati della possibilità di incontrare ostacoli, salvati dalle orribili emozioni, da relazioni scomode come quelle intrattenute con i genitori.
L’obiettivo perseguito dallo Stato mondiale è quello della stabilità sociale ottenuta attraverso la standardizzazione genetica ovvero una produzione in serie di esseri umani suddivisi in categorie che prendono il nome dalle lettere dell’alfabeto greco e che non conoscono l’infelicità perché sin da piccoli, condizionati ad accettare di buon grado la vita che è stata pensata per loro.
Il governo realizza il suo controllo quasi perfetto, inducendo sistematicamente la condotta desiderata, attraverso varie forme di manipolazione non violenta fisica e psicologica. Un mondo che ha esiliato la solitudine, dove ognuno appartiene a tutti gli altri in un eterno presente di giovinezza e prosperità; dove il minimo sconvolgimento emotivo è curato con il soma.
Nelle riserve di selvaggi circondate da un reticolato di filo di ferro ad alta tensione, vivono in relativa libertà tutti gli uomini non evoluti cioè estranei al culto di Ford, che si riconoscono ancora nella cultura primitiva e osservano leggi che nel Mondo Nuovo hanno cessato di aver corso da lungo tempo. Sono luoghi che date le condizioni climatiche e geologiche sfavorevoli, non valeva la pena civilizzare o sterilizzare.
Il mondo nuovo di Huxley è una delle più celebri distopie del Novecento ovvero una previsione di uno stato di cose futuro con cui contrariamente all’utopia, e per lo più in aperta polemica con tendenze avvertite nel presente, si prefigurano assetti politico sociali e tecnologici decisamente negativi.
Un invito alla riflessione
Parlare di popolazioni indigene pone le basi linguistiche per l’emarginazione d’individui, che – di fatto – vivono su un territorio dove sono nati e cresciuti e mantengono un’interazione con l’ambiente naturale che mal si concilia con le attribuzioni di senso della modernità o post- modernità a noi contemporanea, fatta di tecnologia e barbarie.
Da una classificazione lessicale discriminatoria a un’azione reale discriminatoria il passo è breve, tant’è che le popolazioni cosiddette indigene non raggiungono i 500 milioni sparsi in circa 90 paesi, e pur costituendo il 6,2 % della popolazione mondiale, risultano il 19 % del totale degli indigenti a livello globale. Stiamo parlando di alcune tra le comunità più povere e marginalizzate del pianeta, isolate all’interno dei loro stessi paesi, sia politicamente che socialmente.
L’idea che esistessero “indigeni” oltre a uomini civilizzati si diffuse in Europa contestualmente alle esperienze coloniali e attenzione – ovunque nel mondo secondo percorsi differenti e diverse interpretazioni culturali dell’universale dilemma umano provocato dell’incontro / scontro con l’alterità.
Non è un caso che si sia dibattuto a lungo nelle accademie così come nelle sedi istituzionali sovranazionali, sulla terminologia da utilizzare per definire quest’umanità residuale e che si sia deciso di non adottarne nessuna specifica, ritenendo che non fosse necessario accordarsi su di una definizione formale per riconoscere e tutelare i diritti di queste persone, uguali a tutti gli altri eppure così diverse.
Una delle descrizioni ancora oggi più utilizzate è quella proposta da José Cobo’ all’interno del suo studio sul problema della discriminazione contro le popolazioni indigene.
Le comunità, le nazioni e le persone così dette indigene, riconoscono una continuità storica con le società pre-coloniali che esistevano su un dato territorio. Si considerano estranee ad altri segmenti della società che ora vivono sugli stessi territori o in parti di essi. Costituiscono a oggi, una componente minoritaria della società e sono motivate a custodire e trasmettere ai posteri, i territori che considerano ancestrali oltre alla loro identità etnica come fondamento della loro stessa esistenza come gruppo umano, che decide di autodeterminarsi in accordo a uno specifico modello culturale, e precipui ordinamenti sociali e legali.
Il 70 % dei popoli cosi detti indigeni vive tra l’Asia e le isole del Pacifico, il 16% si trova sul continente africano e poco meno del 12% tra l’America latina e i Caraibi. L’America “indigena” è costituita dalle aree in cui la maggioranza assoluta o relativa della popolazione è costituita dai discendenti di quelle popolazioni pre-colombiane di agricoltori sedentari che gli spagnoli definirono indios mansos. D’indigenismo della maggioranza si può parlare in Bolivia, dove la popolazione amerindia è stata valutata tra il 50,5 e il 71% della popolazione, Perù, tra il 38,4 e il 53%; Guatemala, tra il 48 e il 66% e Ecuador, fulcro dell’impero incaico tra il 24,8 e il 50%.
Quest’umanità residuale ha un futuro?
Chi alla guida di uno Stato, un movimento, un’organizzazione, a titolo personale riuscirà a rispettare e far rispettare i diritti di questi individui? Oppure le economie industriali e monetarie immaginate dai cosiddetti uomini civili, sono destinate a distruggere inesorabilmente habitat e stili di vita tradizionali? Nel nome di Quella Modernità senza fede, quel progresso senza nazionalità che soffocano con le loro impietose colate di cemento ogni diversità, perfino ogni conflitto, per creare quell’uniformità senza gusto in cui i più sembrano trovarsi a casa, così magistralmente descritta qualche anno fa da Tiziano Terzani.
Queste persone, escluse dal giuramento di fedeltà collettivo al Leviatano, proprio a causa della loro volontà di preservare un’identità culturale peculiare, hanno qualche chance di sopravvivere alla legge del più forte, che domina la competizione serrata, e spesso violenta, che s’ingenera tra gli esseri umani – così come tra stati, organizzazioni sovra nazionali e non governative, multinazionali etc. – per accaparrarsi risorse della potenza?
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La scelta di citare questo visionario quanto drammatico romanzo, è motivata dal fatto che la storia tratta il tema delle libertà umana e delle forze ostili a essa. Huxley cerca di rispondere alla domanda: come può l’essere umano controllare le forze impersonali che minacciano l’esercizio delle sue libertà?
I cosiddetti indigeni hanno la possibilità di autodeterminarsi nelle loro scelte di vita?
Quali sono le forze ostili che impediscono loro di godere dei più basilari diritti?
Sfortunatamente il racconto di Huxley attesta ancora una volta come per l’essere umano, sia più facile sbarazzarsi di ciò che non gli è gradito o che non risulta vantaggioso in termini utilitaristici, piuttosto che imparare faticosamente a rispettare la diversità; vissuta troppo spesso come una contaminazione invadente piuttosto che come un’occasione per arricchire la propria identità.
Uno Stato, interessato ad auto-conservarsi e quindi ad accumulare quante più risorse possibili al pari di una Multinazionale votata al profitto, che vantaggi potrebbero trarre dalla tutela dei diritti di chi non si riconosce nello spirito dei tempi?
Qualcuno che rivendica un’identità distinta da quella del cittadino senza sovranità o del consumatore?
L’esperienza storica delle popolazioni cosiddette indigene è segnata in passato dall’impatto distruttivo della dominazione straniera e delle politiche assimilative conseguenti, così come in tempi più recenti dall’adozione a livello statale di modelli di sviluppo che obbediscono a logiche di profitto estranee alle tradizioni culturali di queste comunità.
Poco conta che nel Settembre del 2007 le Nazioni Unite abbiano adottato la Dichiarazione sui Diritti dei Popoli Indigeni che impegna l’Onu, i suoi organi, ivi compreso il Forum Permanente per le Questioni Indigene, le istituzioni specializzate, comprese quelle a livello nazionale, e gli Stati a riconoscere e rispettare il diritto dei popoli indigeni all’autodeterminazione e alla conservazione delle proprie istituzioni. Trattasi di parole, promesse tradite alla prova dei fatti.
In conclusione siamo chiamati in quanto esseri umani a educarci a vivere la libertà con responsabilità, nel rispetto di noi stessi, dell’altro, e degli altri abitanti del Regno; educarci molto meglio di quel che non accada oggi.