Il 23 maggio si è spento John Nash (1928-2015), matematico premio Nobel che ha dato contributi essenziali alla comprensione delle decisioni economiche, politiche e strategiche, tra le quali – ve ne parliamo qui – quelle che riguardano il mercato del petrolio. Il mercato oligopolistico del petrolio soggiace infatti alle regole della teoria dei giochi stilata da John Nash, oltre che alle logiche politiche degli Stati.
Una scienza matematica. La teoria dei giochi non è una scienza economica, ma matematica. Questa analizza le decisioni individuali di un soggetto in situazioni d’interazione strategica con altri soggetti rivali, ciascuno con l’obiettivo di finalizzare al massimo il proprio guadagno. Si distinguono giochi cooperativi e non cooperativi, ma il carattere che li accomuna è costituito dal fatto che i giocatori conoscono le regole del gioco come in una partita a scacchi. Compito di tale scienza è analizzare tali fenomeni per indurre i soggetti economici a cooperare nel lungo periodo arrivando all’equilibrio ottimale e non a quello che soddisfa la propria strategia dominante: l’equilibrio di Nash.
Giocare con il petrolio. Prima di continuare l’analisi microeconomica, è necessario definire l’equilibrio di Nash come la situazione nella quale soggetti economici – attraverso l’interazione reciproca – scelgono la loro strategia ottimale in funzione delle strategie scelte dagli altri. Alla luce di tale definizione, bisogna considerare che il mercato del petrolio è formato da pochi venditori e rientra dunque tra gli oligopoli. In questa situazione le conseguenze derivate dalle scelte degli altri soggetti sono prevedibili prima che accadano. Pensate ai paesi produttori di petrolio come la Russia e l’Arabia Saudita e alla possibilità che questi si accordino creando un cartello sul bene per diminuire la produzione mantenendo lo stesso prezzo. Se il patto viene rispettato, aumentano i ricavi a fronte di costi di produzione e distribuzione più bassi. Nel momento in cui bisogna decidere, però, se sia conveniente o meno rispettare l’accordo, l’interesse individuale alla massimizzazione del profitto spinge il paese a violare il patto e di conseguenza a vendere di più nel mercato mondiale, approfittando dell’occasione, per accaparrarsi la fetta di mercato dell’altro oligopolista che invece rispetta gli accordi. Conseguenza quindi prevedibile sarà che l’altro paese non rispetterà l’accordo evitando così di perdere la propria quota di mercato. Il risultato finale sarà inferiore per entrambi – rispetto a quello che si sarebbe potuto ottenere dalla cooperazione – ma la consapevolezza di poter perdere terreno sul mercato porta all’impossibilità di vedere realizzato tale scenario. Ma allora perché esistono comunque i cartelli del petrolio? La risposta va cercata oltre l’economia e i modelli della teoria dei giochi.
Equilibrio politico. Gli accordi commerciali ed economici tra i paesi, regolati dal diritto internazionale, e in particolare dal diritto del commercio internazionale, non sembrano essere sufficienti a tutelare il singolo Stato che ha subito un pregiudizio economico – spesso irrecuperabile – dalla violazione dell’accordo. Paradossalmente l’interesse del singolo soggetto economico, in questo caso, non prevale, dal momento che non riesce ad essere tutelato dagli strumenti di un diritto che spesso si rivela inefficace: l’incertezza porta proprio al risultato opposto ossia alla collaborazione. The Organization of the Petroleum Exporting Countries (OPEC) è uno degli esempi di tale fenomeno. Comprende dodici Paesi che si sono associati, formando un cartello economico, per negoziare con le compagnie petrolifere aspetti relativi alla produzione del greggio, ai prezzi e altre modalità di vendita. Gli stati che formano l’OPEC controllano circa il 78% delle riserve mondiali conosciute di petrolio, il 50% di quelle di gas naturale e forniscono circa il 42% della produzione mondiale di petrolio e il 17% di quella di gas naturale. Visti gli interessi economici in gioco e l’assenza di strumenti adeguati a proteggerli o a ripristinare la situazione preesistente, sembra che gli Stati siano spinti alla collaborazione anche tollerando improvvise violazioni degli accordi da parte di alcuni paesi, irrilevanti nel breve periodo. Il risultato finale di lungo periodo derivante dalla cooperazione costituisce l’equilibrio ottimale per l’oligopolista che riesce a trasformare il profitto come se si trovasse in una situazione di monopolio; proprio come risulta dall’applicazione della teoria dei giochi quando si sceglie la soluzione cooperativa. Questo comporta maggiori profitti per gli Stati, ma forse può essere il prezzo per mantenere l’equilibrio politico tra di loro. Quello che ci ha insegnato Nash è che spesso l’economia non è regolata solo dalla matematica e dai modelli, ma anche dalle decisioni individuali e dalla psicologia dei soggetti. Non bisogna pensare che la soluzione microeconomica sia l’unica.