Nella sua ultima Enciclica il Papa ha nominato la “decrescita”. Tanto è bastato per alimentare discussioni più o meno raffinate. Ma di cosa parliamo quando ci riferiamo alla “decrescita”?
Nel mese di giugno è stata pubblicata l’Enciclica papale Laudato Sì, la consueta lettera pastorale dove viene delineato il solco politico del potere Vaticano per gli anni a seguire. È la prima enciclica redatta interamente da Papa Francesco; la precedente fu firmata anche dal suo predecessore Benedetto XVI. In questa Enciclica c’è tanto su cui riflettere, dalla crisi del capitalismo fino alle diseguaglianze sociali, ma ciò che ha fatto più dibattere è stata l’attenzione posta ai temi ambientali. In Italia non abbiamo fatto eccezioni, e alcuni hanno visto in questa Enciclica una sorta di endorsement papale all’ideologia della “decrescita felice”, anche per via di questa frase, che si trova a pagina 184,
Per questo è arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti.
È l’unica volta che nel lungo testo viene utilizzata la parola “decrescita”, ed è impiegata in maniera differente rispetto a come viene intesa la decrescita tra chi l’ha ideata e professata come la soluzione ai problemi della società contemporanea. Non bisogna stupirsi: il concetto di decrescita è un concetto ancora un po’ nebuloso, e andrebbe fatto un piccolo vademecum che permetta di fare chiarezza sull’oggetto del dibattito.
Cosa non è la decrescita
Prima cosa, la decrescita non è una teoria economica. Quando si sente parlare di decrescita, la stessa è spesso affiancata da un aggettivo rassicurante, tipo “felice”, “serena”, “consapevole”. Il che dovrebbe già da solo dare un primo indizio sulla scarsa base scientifica su cui appoggia. Le teorie scientifiche non hanno mai connotazioni valoriali. Esiste la “teoria delle stringhe”, ma non esiste la “teoria delle stringhe depressa” o la “teoria delle stringhe rilassante“. Nemmeno le “teorie dei giochi” sono felici, tristi o arrabbiate. Sono teorie, punto. A volte dimostrate, a volte confutate, a volte indeterminate. La connotazione di valore ci porta più nell’ambito della filosofia, se non della religione, come vedremo più avanti.
Ogni teoria economica, cosiddetta ortodossa, non può prescindere dalla crescita economica continua. Solo gli approcci di tipo marxista, di configurazione cosìdetta classica, hanno come obiettivo “l’equilibrio economico generale” piuttosto che equilibri economici parziali, settoriali, temporali relativi alle interdipendenze strutturali dell’economia [per approfondire cfr. qui]. Da questo punto di vista la decrescita ha una matrice marxista, non nella sua applicazione materiale ma nel suo obiettivo ultimo e universale. Marx infatti sosteneva che una volta arrivati ad avere una società in cui le forze produttive risultassero svincolate e liberate dai rapporti di produzione, si sarebbe raggiunto un tale benessere diffuso che lavorando pochissimo tempo, si avrebbe avuto la possibilità di occuparsi liberamente dei propri piaceri personali e dei propri hobby. Per arrivare a questa utopia bisognava però prima passare per un “sistema intermedio”: la dittatura del proletariato. Si è visto come è andata a finire dove c’hanno provato, diciamo.
La decrescita, per stessa ammissione dei suoi teorici, non c’entra niente con lo sviluppo sostenibile, ed anzi non c’entra niente nemmeno con lo sviluppo. Serge Latouche, uno dei padri dell’idea di decrescita, scrive che “lo sviluppo è una parola tossica, quale che sia l’aggettivo che gli viene applicato” [pag. 20 “Breve trattato sulla decrescita serena” Bollati Boringhieri Editore]. Secondo Latouche termini quali “sviluppo”, “ecosostenibilità”, “ecoefficienza”, eccetera, sono termini che distorcono la realtà attraverso la “diplomazia verbale”.
La decrescita inoltre, contrariamente al pensiero comune, non è nemmeno sinonimo di recessione . La recessione è una cosa misurabile, la decrescita no. Il concetto di decrescita è un concetto molto più complesso e profondo di un mero abbassamento del Pil misurato in un determinato periodo temporale. È vero che, se si potesse mettere in atto “serenamente” una politica di decrescita, vi sarebbe contemporaneamente una recessione. Ma sono due cose diverse. Maurizio Pallante, forse il più noto esponente del movimento decrescista, separa distintamente le due cose. Una recessione infatti è una diminuzione generalizzata e incontrollata della produzione, mentre la decrescita, è una diminuzione selettiva e mirata della produzione [“La decrescita felice”, Editori Riuniti]. Può sembrare una differenza sottile, ma non lo è. Ad ogni modo ci sono diversi punti di vista, e lo stesso Latouche dice cose diverse da Pallante, che a sua volta critica la visione decrescista del Movimento 5 Stelle, che nel panorama politico italiano è il partito che maggiormente sposa questa ideologia.
Cosa è la decrescita
Come abbiamo visto, la decrescita non è un concetto economico. O meglio, la decrescita è un concetto che nasce nell’ambito dell’economia, ma straripa immediatamente nel campo della filosofia. Alla base di tutto c’è una semplicissima idea che si basa su tre pilastri:
- non si può crescere illimitatamente in un mondo limitato. Questa che sembra una banale osservazione non è del tutto corretta, e andrebbe declinata in base a cosa intendiamo per crescita (il progresso è crescita?). Semplifichiamo per non confondere troppo le idee, e consideriamo la crescita economica come sinonimo di crescita, e prendiamo per dato acquisito la sua esattezza. La prima volta che si parlò di questo problema fu nel 1972, quando si riunì il celebre Club di Roma per stilare un rapporto diventato famosissimo in seguito, chiamato Rapporto Meadows.
- come nella fisica sussiste l’effetto entropico dell’attività umana. Il sistema globale (“gaia“), in assenza di esseri umani, è un sistema ordinato. Nel momento in cui l’essere umano inizia ad agire modificando la natura e trasformandone i suoi elementi, il sistema entra in uno stato di disordine. Questo disordine crea delle esternalità che vanno a modificare il sistema nel suo complesso, che quindi evolve e va a collocarsi in un altro “livello” di ordine, diverso dal precedente, con effetti imprevedibili. L’inquinamento è un esempio di effetto entropico umano. Se volete sapere qualcosa di più sull’entropia leggetevi qualcosa di Rifkin.
- esiste un rapporto di sudditanza uomo/macchina che va ribaltato. L’uomo vive attraverso strumenti che la modernità ha reso per lui quasi imprescindibili. Lo strumento moderno è il prodotto dell’età industriale, che ha ridotto l’individuo ad usufruire solo ed esclusivamente di materia precedentemente lavorata da esso. Il rapporto uomo-strumento è un rapporto delicato, e più si creano strumenti specializzati, più l’uomo né dipenderà, e più vi saranno sempre meno capacità diffuse di riprodurre quegli strumenti, arrivando quasi ad un monopolio. Questa zoppicante teoria è detta della convivialità, e il suo inventore è Ivan Illich.
Nonostante la decrescita sia un concetto relativamente nuovo (nessuno dei tre pilastri nasce prima degli anni ’70), già in passato altri studiosi vi si erano avvicinati per vie traverse. Il più noto è Thomas Malthus, economista inglese della fine del diciottesimo secolo. Secondo lui vi era un rapporto diretto tra aumento della produzione e aumento della popolazione. Si tenga conto che dalla fine dell’Impero Romano fino a circa il 1500, in Europa si è registrata una crescita del prodotto pro capite quasi nulla: la maggior parte dei lavoratori era impiegata nell’agricoltura, e non vi era progresso tecnologico rilevante. Le cose rimasero così anche dopo il 1500, nonostante le stime indichino che la crescita aumentò leggermente. Forse è per questo che Malthus sostenne che l’aumento proporzionale tra produzione e popolazione non era una coincidenza. Ogni aumento della produzione infatti porterebbe ad una riduzione della mortalità, e quindi, ad un aumento della popolazione fino a quando il prodotto pro-capite non torna al suo livello iniziale: era impossibile cioè secondo Malthus uscire da questa “trappola” che infatti fu chiamata Trappola Malthusiana.
Questo sarebbe vero in un mondo statico, privo dell’ ingegnosità umana. E infatti le teorie malthusiane, simili per certi versi a quelle decresciste, vennero presto smentite non appena un’altra variabile – il progresso tecnologico – entrò nell’equazione della crescita.
Visto che i “limiti della crescita sono definiti, nel contempo, sia dalla quantità disponibile di risorse naturali non rinnovabili sia dalla velocità di rigenerazione della biosfera” [pag.12, Latouche, “La scommessa della decrescita”] si evincerebbe che il limite naturale non è modificabile dall’attività umana. Ma in realtà il limite è spostabile teoricamente all’infinito, grazie alla tecnologia, che come si sa evolve a balzi imprevedibili.
Si può anche pensare che tutto ciò che la decrescita sembra offrire sia auspicabile, che sia giusto e lungimirante: consumare di meno è etico. Ma i sostenitori della decrescita vanno oltre. Per loro il cambiamento deve essere molto più radicale. Non basta “consumare di meno”, “ridurre gli sprechi”, non basta la “sostenibilità ambientale”. Quello che i decrescisti dicono di volere è un ritorno ad una economia di sussistenza, declinata in chiave “moderna”.
Ora che abbiamo un quadro, sicuramente incompleto ma esauriente, su cosa è e cosa non è la decrescita, proviamo ad andare oltre, immaginandoci cosa comporterebbe una sua eventuale applicazione.
Cosa comporterebbe realizzare la decrescita
Proprio per come è enunciata, la decrescita, per essere applicata, necessiterebbe di una rivoluzione universale dei costumi, della cultura, dei valori, della democrazia, e di tutto quello che riguarda le abitudini di miliardi di esseri umani. Non si può infatti decidere dall’oggi al domani, per decreto, di “decrescere”. Né tanto meno si può per decreto decidere che bisogna farlo “serenamente” e con il sorriso sulle labbra. Non si può modificare la complessità del mondo contemporaneo sulla base di valori e di buoni propositi teorici che non appartengono a tutti quanti. Al mondo non ci sono solo persone diverse, ma ci sono anche culture diverse strutturate sulla base di infiniti input, storici, etnici, nazionali. I cambiamenti sarebbero talmente immensi che solamente un folle potrebbe pensare di vederli implementati in maniera pacifica e senza costrizioni. Per di più questi cambiamenti per essere efficaci dovrebbero essere globali.
Un conto è trovare misure alternative al Pil per stabilire ricchezza e benessere, diverso è non riflettere sugli effetti di una eventuale decrescita reale. L’economista Nino Galloni (un critico del capitalismo) ha calcolato che per applicare in Italia i dettami della decrescita, la popolazione dovrebbe attestarsi intorno ai 15 milioni di individui. Oltre non sarebbe possibile. Dove mettiamo i miliardi di esseri umani in eccesso che ci sono al mondo? Se lo sterminio di massa non è tra le opzioni, quale entità sovranazionale avrà mai il potere di imporre controlli delle nascite globali, quando nemmeno l’autoritaria Cina ci è riuscita pienamente dentro i suoi stessi confini nazionali? E soprattutto, ciò è auspicabile?
Aggiungendo il termine “felice” le cose vanno ulteriormente a complicarsi: la felicità di qualcuno potrà essere l’infelicità di qualcun’altro. Ci sono molte persone che vivrebbero benissimo in un contesto di austerità new age, mentre per altri ciò potrebbe rivelarsi un incubo. La decrescita potrebbe essere felice per alcuni nella misura in cui sarà tremendamente triste per altri. I decrescisti non considerano l’uomo per quello che è, con le sue debolezze e le sue inevitabili mancanze. Pensano piuttosto che sia possibile arrivare a un “uomo ideale”, concetto filosofico che poco ha a che fare con la realtà del mondo.
Inoltre, chi va a dire a quei miliardi di individui che in tutto il mondo stanno uscendo dalla miseria, migliorando i loro standard di vita, che per loro il gioco è finito? Quelle persone non scompaiono, ma vivono solo peggio se non c’è sviluppo e crescita. In tutto il mondo la mortalità infantile sta calando, la qualità della vita sta salendo, i tassi di alfabetizzazione migliorano, e tutto questo è, nel bene o nel male, derivante dalla crescita. Vuole il signor Latouche andare in India, in Indonesia o in Sudamerica a dire “ragazzi, lo sviluppo è cattivo, fermatevi”? La crescita è un collante sociale. Quando non c’è, le società si sfaldano, si sfibrano, si indeboliscono. La crescita è anche ciò che permette, (con tutti i suoi difetti), una qualche forma di equità distributiva delle risorse. Sanità, pensioni, welfare, tutte queste cose esistono perché c’è una economia che le sostiene. L’aspettativa di vita è rimasta uguale dal tempo dei romani fino al 1800, momento in cui iniziarono i grandi commerci e le grandi rivoluzioni tecnologiche. Qualcosa vorrà pur dire.
Si può vivere secondo la filosofia della decrescita individualmente, ma deve essere chiaro che chi lo fa, a meno che non viva nelle steppe asiatiche senza avere contatti con il mondo, lo fa in maniera un po’ ipocrita. Per vivere secondo questi canoni infatti servono le tecnologie più avanzate: per recuperare i rifiuti, per non inquinare, per creare e risparmiare energia. Le tecnologie non nascono sugli alberi. Ci deve essere qualcuno che le ha studiate, testate, finanziate e costruite. Latouche riporta che nel 1960 un contadino francese procurava cibo per 7 persone, mentre oggi le persone sono diventate 80 [pag.88 “La scommessa della decrescita”]. Tra quelle settantatré persone che quel contadino moderno sfama, ci sono anche i ricercatori, gli scienziati, i medici, i professori, che contribuiscono in maniera determinante al progresso tecnologico: quello stesso progresso tecnologico di cui una persona volenterosa di decrescere ha assolutamente bisogno per vivere degnamente. Senza progresso tecnologico la decrescita assume contorni tutt’altro che sereni e felici. Un tipo standard di modello di civiltà decrescista senza la variabile della tecnologia è quel modello medievale da cui i nostri antenati sono fuggiti a gambe levate appena hanno potuto.
Anche prendendo per buone le tesi meno spinte sulla decrescita – quelle di Pallante, per intenderci – emergono comunque delle difficoltà nel doverne immaginarne un’applicazione pratica. Queste teorie “soft” suddividono i beni in due categorie: beni essenziali e beni commerciali (dove per commerciali si intende superflui). La distinzione però non è così netta come può sembrare. Ci deve essere qualcuno che decide quali beni sono essenziali e quali superflui, e le scelte, in un ipotetico mondo “decrescista”, saranno inevitabilmente arbitrarie e non condivise da tutti. L’istruzione è un bene essenziale? Le medicine? I trasporti? Tutti questi beni e servizi non si mantengono con l’economia di sussistenza. Questi beni e servizi esistono perché ci sono proventi commerciali, entrate fiscali, risorse cioè che consentono di finanziare servizi pubblici e ricerca scientifica, innovazione e progresso. Deve essere chiaro che “decrescere” non significa solo rinunciare ad una macchina fotografica, ad uno smartphone o ad una uscita al ristorante. Decrescere significa nei fatti rinunciare a tutte le risorse pubbliche che lo Stato ha a disposizione, e che vengono distribuite anche per l’assistenza ai più deboli.
A queste obiezioni i decrescisti rispondono che i servizi che lo Stato offre dovrebbero venire soppiantati dal volontariato. Un volontariato probabilmente meno “volontario” e più obbligatorio, stanti così le cose. L’argomentazione che sostiene “anche lavorare è obbligatorio se vuoi mangiare” non regge, poiché il lavoro che io svolgo in una società produttiva consente ad altri di occuparsi di quello di cui io non ho risorse\tempo\capacità di occuparmi. In un sistema a decrescita il prodotto per occupato crolla, e serviranno di nuovo più contadini per sfamare una minor popolazione, e non è detto che tutti i contadini abbiano risorse\tempo\capacità per poter volontariamente offrire il loro supporto individuale al sistema sociale, alla cura dei malati, alla cura degli anziani, eccetera. Comprensibilmente non ne avrebbero nemmeno voglia.
Il mondo però così non è più sostenibile, qualcosa bisogna pur fare, e il Papa ha ragione
I fondamenti e le preoccupazioni su cui basano le loro teorie i decrescisti non sono sbagliati in sé. Piuttosto è abbastanza sconclusionato il modo in cui si vorrebbe mettere in pratica la teoria. L’unico modo che abbiamo per consumare meno – rimanendo nel mondo reale e senza prenderci in giro – è, banalmente, rendere conveniente il rispetto per l’ambiente, il risparmio energetico, la lotta agli sprechi. Cercare forme energetiche alternative, più pulite, rinnovabili. Riciclare sempre di più, sviluppare tecnologie nuove, fare ricerca scientifica sempre più raffinata: solo così si potranno ottenere risultati. Perché è vero che l’uomo spreca troppe risorse, e le spreca spesso per futili motivi, ma la strada da seguire per tentare di modificare il trend (e sottolineo tentare: non è detto che ci si riesca) non è la strada della decrescita: come si è tentato qui di spiegare, quella strada è inconcludente, paradossale, e nella migliore delle ipotesi per attuarla servirebbero stermini di massa e un enorme leviatano mondiale con la forza ed il potere di controllare tutto di tutti, ponendo limiti autoritari alle vite degli individui, alla loro libertà, decidendo arbitrariamente cosa è “spreco” e cosa non lo è, cosa è “virtuoso” e cosa no. Insomma, la decrescita è un’utopia che troverebbe il suo unico modo di essere attuata, su questa terra, con noi umani – che non siamo portatori di amore salvifico come i personaggi di Tolstoj, ma piuttosto siamo mediamente deprecabili e pieni di difetti come i personaggi di Dostoevskij -, solo attraverso l’instaurazione di un regime austero e tirannico tutt’altro che auspicabile.