Nel maggio del 2014 si parlò molto di un imponente accordo che prevedeva l’acquisto da parte della Cina di 38 miliardi di metri cubi di gas dalla vicina Russia. Il flusso partirà secondo previsioni nel 2017, ed il valore del contratto è stato valutato in 400 miliardi di dollari. Il costo dell’infrastruttura – la cosiddetta Pipeline Power of Siberia che dalla Siberia dopo 4.500 km dovrebbe giungere a Shanghai – è di circa 55 miliardi di dollari. Nell’accordo si preventivava anche una seconda infrastruttura gemella (la Pipeline Power of Siberia 2), in grado di portare in territorio cinese attraverso “la via occidentale” altri 30 miliardi di metri cubi di gas all’anno: in tutto 68 miliardi di metri cubi di gas.
Durante l’ultima fase di colloqui, Pechino ha reso note le proprie perplessità per questa seconda infrastruttura, decidendo di rimandare a data da destinarsi la stipulazione del contratto, quasi dimezzando le forniture di gas cui credeva di aver bisogno per i prossimi decenni. Il motivo principale di questa inaspettata – e da Mosca temuta – rinuncia deriva dal calo dei consumi cinesi di gas, ben al di sotto delle aspettative: nel 2013 la domanda cresceva del 13% all’anno, oggi le previsioni stimano la crescita a poco più del 2%-3%. C’è inoltre il fattore petrolio che entra nell’equazione energetica della strategia cinese: con il crollo dei prezzi del greggio diventa infatti più conveniente acquistare gas naturale liquefatto da terzi fornitori.
Un’altro ostacolo alla firma del contratto è stata la richiesta avanzata dai cinesi di poter escludere dall’accorso per la costruzione della pipeline la fornitura vera e propria di gas, in modo da poter indire gare e rendere più competitivo il progetto. Gazprom, il cui potere spesso deriva dalla posizione di monopolio in cui opera, avrebbe preferito consegnare l’intero progetto senza doversi confrontare con eventuali competitor.
La sospensione del contratto si traduce in un duro colpo alla strategia per le esportazioni energetiche russe. Mosca preferirebbe diversificare ad oriente, così da esser economicamente meno legata alle necessità energetiche europee, e per fare questo puntava molto sulla Cina, dove peraltro Putin si recherà a settembre. Vedremo allora se esisteranno margini per riconsiderare l’accordo sul gas russo.