L’Africa attira verso di sé le attenzioni fameliche delle grandi potenze globali, interessate a garantirsi il controllo e la gestione di importanti risorse e snodi strategici. È il caso del Gibuti, piccolo Stato africano che ospita basi militari di diverse potenze straniere.
La Cina sta concretizzando oggi più che mai quella che potrebbe essere definita come la nuova era neocoloniale sul Continente Nero. Il governo di Pechino vede in Africa quello che nessun’altra terra emersa può offrigli. Risorse della potenza, energia, materie prime e regimi politici accomodanti con cui concludere affari d’oro. Per gli Stati africani la Cina è un partner commerciale ideale, che tra l’altro offre sostegno diplomatico a livello internazionale mentre eroga miliardi di dollari in aiuti senza contropartita; eroga cioè fondi senza pretendere che i progetti finanziati vengano concretizzati. Nonostante le critiche del FMI e della Banca Mondiale sull’opacità di questi accordi, i volumi degli scambi tra Cina e Africa sono passati da 10 miliardi di dollari nel 2000 a 300 miliardi nel 2015. Queste relazioni sino-africane non passano certo inosservate e costituiscono un affronto nei confronti delle vecchie potenze coloniali europee che lì hanno ancora vasti interessi, e degli Stati Uniti, che dopo il 2001 hanno intensificato la loro presenza sul continente.
Il caso di Gibuti
La Repubblica di Gibuti, è un piccolo paese di 23.000 km2 – poco meno del Piemonte – situato dove il Mar Arabico incontra il Mar Rosso; ospita già le basi militari di Stati Uniti e Francia ex potenza coloniale. L’interesse della Cina per questo paese però è evidente. Gibuti, affacciato sullo Stretto di Bab-el-Mandeb, rappresenta una rotta di navigazione tra le più trafficate al mondo, che mette in collegamento il Mar Mediterraneo con le rotte dell’Oceano Indiano, attraverso il Canale di Suez. La lotta alla pirateria in tutto il Corno d’Africa ha indotto nel corso degli anni molti paesi ad utilizzare il porto di Gibuti come sede logistica e di approvvigionamento per le varie operazioni militari ed umanitarie.
Gibuti è sempre stata oggetto di grande attenzione per le potenze straniere, ma è la Francia che detiene le redini del paese. Il governo di Parigi è fortemente interessato all’integrità del territorio Gibutiano. Non a caso i due paesi hanno firmato nel dicembre 2011 un Trattato sulla cooperazione nella difesa che sostituisce l’accordo firmato dopo l’indipendenza di Gibuti nel 1977. Con questo accordo la Francia si impegna a difendere Gibuti in caso di attacco esterno. Ecco uno dei motivi per cui questo paese ha subito meno tensioni dei suoi vicini durante la sua storia recente. Inoltre, questo Trattato, permette alla Francia di mantenere una base militare sul territorio, un “avamposto nella lotta contro il terrorismo”, assicurando al Gibuti il “sostegno francese alla sicurezza e alla difesa”, anche attraverso l’addestramento di truppe ed esercitazioni comuni.
La Francia mantiene importanti strutture militari a Gibuti e conta oggi oltre 2000 soldati di cui 1400 permanenti, suddivisi tra esercito di terra, aviazione e marina. È da questa posizione che la Francia può proiettare rapidamente le sue forze armate su ampie zone del continente, come in Repubblica Centroafricana nel 2014, o con l’intervento nel 2015 in Mali. Ma anche in Medio Oriente, dato che una serie di caccia sono decollati nell’arco di 8 mesi per colpire le postazioni di Daesh in Iraq e Siria. Inoltre, è da lì che parte l’esercito francese verso l’Iraq e l’Afghanistan. Gibuti è stata anche per molti anni sede della Legione Straniera francese (adesso spostata ad Abu Dhabi). La Francia si è sempre dimostrata generosa nei confronti di Gibuti, ma ha mantenuto comunque un ritorno di interesse non indifferente.
Ma è soprattutto negli anni 2000 che Gibuti acquista maggior importanza con la campagna contro il terrorismo internazionale lanciata da Bush Jr. Gli attacchi contro le ambasciate degli Stati Uniti a Nairobi (Kenya) e Dar es Salaam (Tanzania) nel 1998, e l’attacco al cacciatorpediniere USS Cole nel porto di Aden nel 2000, hanno portato l’amministrazione degli Stati Uniti ad aprire una base militare nel 2003 proprio per monitorare lo stretto di Bab-el-Mandeb. È l’unica base militare permanente degli Stati Uniti nel Continente Africano. Per le amministrazioni americane Gibuti si colloca nella “Combat Zone”, proprio come l’Iraq o l’Afghanistan, e diventa quindi cruciale nella lotta contro il terrorismo internazionale. Secondo le fonti della difesa, sono quasi 3.200 soldati americani e civili che lavorano nella base a Gibuti, che rimane il centro di operazioni militari nel Corno d’Africa e, come racconta un lungo articolo del Daily Beast, il punto di partenza delle operazioni di droni contro Al Qaeda nella penisola arabica, oltre che contro al-Shabaab in Somalia, ma anche per i vari interventi avvenuti in Mali.
Oltre a Francia e USA, nel 2009 Gibuti ha siglato un nuovo accordo con un’altra potenza, il Giappone che ha inaugurato la sua prima e unica base militare semi-permanente all’estero dopo la resa incondizionata del paese nel 1945. Ingaggiata anche lei dal 2009 nella lotta anti-pirateria al largo delle coste Somale, le forze di Autodifesa giapponesi possono beneficiare nello Stato africano di strutture semi-permanenti, oltre che della collaborazione di truppe francesi e statunitensi già operanti nel Corno d’Africa. Alcuni inquadrano questa decisione come il primo passo verso la militarizzazione dell’ex impero nipponico. La base è di circa 12 ettari, vicino all’aeroporto, ed è costituita da un centro di comando, un hangar per la manutenzione di aerei da ricognizione P3 Orion, uffici e alloggi per truppe e personale di supporto.
Lo scopo di questa base sarebbe combattere la pirateria, lotta in cui Tokyo riveste un ruolo di primo piano in Malesia, Indonesia e Singapore. La libertà e la sicurezza di circolazione sulle vie navigabili è di vitale importanza sia per i paesi occidentali che per quelli asiatici. La dipendenza energetica del Giappone spiega ulteriormente il suo interesse nel mantenere l’area stabile e sicura. Inoltre, la via del mare attraverso lo Stretto di Bab-El-Mandeb è di grande interesse per un paese che esporta massicciamente le sue tecnologie.
Il motivo che ha spinto quindi il governo di Tokyo a impiegare soldati oltre confine è prettamente di natura economico commerciale. Diverse navi giapponesi sono state attaccate dai pirati somali tra il 2007 e il 2009, e sono oltre 2000 le navi battenti bandiera giapponese che attraversano ogni anno il Golfo di Aden. Il 90% delle esportazioni del Giappone dipendono dal passaggio per il Mar Rosso e il Canale di Suez.
Ultima, ma solo per ordine di arrivo sul territorio del Gibuti è la Cina. Alla fine del 2015 il governo di Guelleh e quello cinese hanno infatti trovato l’accordo per la costruzione di una base militare, con lo scopo dichiarato da parte cinese di completare il dispositivo antipirateria dell’operazione Atalanta (di cui fanno inoltre parte Italia e Germania, che hanno nel Paese le loro basi militari per le operazioni anti-pirateria). Nei prossimi due decenni, potremmo assistere all’ascesa della Cina nel ruolo di gendarme dell’Oceano Indiano. Per il momento, la presenza di Pechino non dovrebbe interferire con gli interessi occidentali, compresi quelli statunitensi. Al contrario, la sua partecipazione rafforza la lotta contro la pirateria e contribuisce alla stabilizzazione della regione. Ma non è detto che la presenza cinese permanente al di là dell’Oceano Indiano non impensierisca in un prossimo futuro gli interessi occidentali. Come il Giappone, anche la Cina sta agendo per il momento mossa da questioni prettamente economiche e commerciali. Ma come abbiamo già ricordato la Cina ha troppi progetti ed investimenti in Africa, e nessun luogo potrebbe essere di vitale importanze come Gibuti per proteggere l’interesse nazionale.
Inoltre, il piccolo paese ospita anche un porto vitale per l’Etiopia, che dopo l’indipendenza dell’Eritrea vede nel paese vicino l’unico sbocco sul mare. Da non dimenticare poi che l’Etiopia – un paese di oltre 80 milioni di abitanti – ha diversi ed importanti accordi commerciali e di investimento con la Cina.
Durante il decennio 2014-2024, Gibuti prevede di costruire cinque nuove strutture portuali, terminal container, zone franche, oleodotti, strade e ferrovie e infrastrutture per fibre ottiche collegate con il Sudan, oltre a due aeroporti di cui uno iniziato il 25 gennaio 2016 sotto la supervisione della China Civil Engineering Construction Coporation.
L’economia del Gibuti non è industrializzata, e vive di servizi; il settore dei trasporti costituisce la spina dorsale dell’economia del Paese. Gibuti, che possiede già il terzo più grande porto container africano, nel dicembre 2014 ha annunciato il lancio di 14 grandi progetti per un importo complessivo di 9.803 miliardi di dollari (sei volte il PIL del paese), finanziati da un prestito dalla China Exim Bank (banca del governo cinese il cui obiettivo è aprire nuovi mercati di import-export), e realizzabile attraverso la partecipazione di decine di multinazionali.
Gibuti rappresenta per la Cina la porta d’ingresso ideale per l’entroterra africano, dal Sud Sudan, che non ha più un porto dalla sua indipendenza del 2011 e dalla quale Pechino acquista il suo petrolio in cambio di soldi e armamenti, fino all’Etiopia e ai paesi dei Grandi Laghi.
La Francia, che tuttora detiene le redini del paese, non si entusiasma di fronte alla presenza di eventuali antagonisti in quello che potremmo chiamare il suo “cortile di casa”. La grandeur francese, dopo la presenza americana e giapponese, dovrà digerire anche quella cinese, capace di ridimensionare il ruolo di Parigi (e di Washington) nello scacchiere geopolitico dell’area.
La Cina ha saputo sfoderare con astuzia una politica estera raffinata in un luogo per secoli rimasto sotto il dominio occidentale. Le crisi che attanagliano l’Europa hanno di fatto aperto il varco a nuovi protagonisti. E non è escluso il rischio che si possa entrare in una nuova forma di imperialismo. I dittatori africani e in particolar modo quello Gibutino vede di buon occhio la noncuranza dei diritti umani più elementari dimostrata dalla Cina, soprattutto se paragonata ai tentativi di Francia e Stati Uniti che, ipocritamente, cercavano di garantirne il rispetto. Vi sono quindi tutti gli ingredienti per una lunga e prospera nuova alleanza.
Mohamed-Ali Anouar