Di Marta di Paola
C’è chi sostiene che la carestia che ha colpito l’Etiopia sia causata dal fenomeno climatico de El Niño, ma c’è anche da considerare un’altra attività che potrebbe aver aggravato la situazione alimentare etiope: il land grabbing.
Ci sono diversi mali che affliggono l’umanità, e la carestia è tra questi. Lo sa bene l’Etiopia, uno Stato Federale situato nel corno d’Africa dove la mancanza o la scarsità (grave) di derrate alimentari negli ultimi 30 anni è stata la causa di milioni di decessi dovuti alla fame. Il paese è colpito da carestie cicliche e, per il 2016, le Nazioni Unite prevedono che saranno 8,2 milioni le persone bisognose di generi alimentari.
Questa nuova scarsità è dovuta alla totale assenza di piogge nel 2015 e alla conseguente siccità che ha colpito diverse zone del paese; condizioni che alcuni attribuiscono ad El Niño, quell’insieme di fenomeni atmosferici che si verificano nell’oceano Pacifico, di solito con maggiore intensità nei mesi invernali (in media ogni cinque anni) che cambiano il clima globale. Le conseguenze a volte sono catastrofiche in diversi luoghi del mondo, con alluvioni in alcune zone e siccità in altre, e danni irreparabili soprattutto per l’agricoltura e la pesca. Il governo etiope ha stanziato 130 milioni di dollari per fronteggiare l’emergenza, (togliendo finanziamenti ad altri progetti come per esempio la costruzione di strade), ma secondo le Nazioni Unite ne servirebbero almeno il doppio. Secondo Save the Children, l’organizzazione internazionale che si occupa dei bambini e della tutela dei loro diritti, sarebbero già 350 mila i bambini gravemente malnutriti che rischiano ritardi mentali e fisici, se non addirittura la morte.
Nel 1984 la BBC documentava la drammatica situazione di centinaia di migliaia di persone che in Etiopia morivano di fame o di malattie collegate alla malnutrizione. Attenzione le immagini contenute nel video potrebbero urtare la sensibilità dello spettatore.
È lecito domandarsi se questi problemi siano o meno acuiti dal fenomeno del land grabbing, dato che in Etiopia molte delle terre fertili – come per esempio la valle dell’Omo – sono state prese in affitto da società agricole straniere che dal 2011 (in concomitanza con una delle più gravi carestie registrate fino ad allora) fanno affari con il governo etiope. In quell’occasione si dava attuazione a un piano avviato nel 2009 che prevedeva (per gli anni successivi) la cessione di 35 mila chilometri quadrati di terra, (una superficie più estesa della Lombardia, ndr), ad aziende straniere che avrebbero potuto utilizzarla per un periodo compreso tra i 50 e i 99 anni. Le imprese che si sono appropriate di ampi tratti di terra situata nell’area del fiume Omo nel sud-ovest dell’Etiopia, sono malesi, coreane e anche due italiane, tra cui la Fri-El Green Power. Quest’ultima aveva riconvertito la produzione da biocarburanti ad alimenti, sostenendo che questa misura fosse stata presa soprattutto per aiutare il mercato interno e in particolare la popolazione bisognosa di cibo. Secondo il responsabile di Medici Senza Frontiere, però, mais, soia, palma da olio e canna da zucchero, non soddisferebbero il fabbisogno calorico di persone malnutrite. La carestia del 2011 ha lasciato più di 11 milioni di esseri umani in condizioni disperate. Secondo il rapporto dell’Unicef di quell’anno, 720 mila bambini si sono trovati a rischio di morte imminente a causa di malnutrizione acuta grave.
Comprare o pagare l’affitto di un terreno fertile per esportare biocarburanti, legname, alimenti in un luogo dove le carestie sono cicliche è paradossale; l’obiettivo primario del governo etiope (nel migliore dei mondi possibili) dovrebbe essere quello di sfamare la popolazione, e non fare affari con chi ha come scopo preminente il profitto. Invece, nonostante il 30% della popolazione viva sotto la soglia della povertà alimentare le colture vengono esportate all’estero principalmente in India e in Arabia Saudita.
Contemporaneamente però è necessario ricordare che meccanismi di sfruttamento delle popolazioni locali possono avvenire anche attraverso operazioni direttamente pensate per alleviare i problemi di queste persone. Le organizzazioni, le ONG e le associazioni presenti “sul campo” denunciano ad esempio l’inefficacia di progetti di aiuto sostenuti dalle banche internazionali di sviluppo, come la Società Finanziaria Internazionale (il settore d’investimento della Banca Mondiale). In Etiopia, ad esempio, nelle regioni di Gambella, Somali, Afar e Benishangul-Gumuz sono stati avviati progetti – sostenuti dalla Banca Mondiale e dal governo per ammodernare l’agricoltura e garantire la sicurezza alimentare – che non stanno dando i risultati sperati. Human Rights Watch ha stilato un rapporto dopo il primo anno d’implementazione del piano a Gambella e ha denunciato trasferimenti forzati agevolati dall’assenza di titoli di proprietà della terra, il deteriorarsi della situazione alimentare della popolazione (circa 70.000 le persone coinvolte nell’area) e intimidazioni da parte dell’esercito.
Senza entrare nel merito della diatriba tra chi sostiene la legittimità del land grabbing e chi la nega (il fenomeno dell’espropriazione della terra ha una sua storicità e specificità che non può essere spiegata tramite narrazioni semplicistiche) il problema in Etiopia resta; milioni di persone (a distanza di trent’anni) non hanno garantita la sicurezza alimentare in un paese dove attori internazionali (di vario tipo) investono risorse per comprare o affittare terreni fertili che diversamente potrebbero sfamare la popolazione.