Più di 50 anni fa la storica intesa tra Francia e Germania ha dato inizio al progetto europeo. Oggi lo stesso asse rischia di distruggerlo.
La storia delle due Guerre Mondiali è stata innanzitutto la storia della feroce rivalità tra francesi e tedeschi per il controllo delle terre bagnate dal fiume Reno e dei loro ricchi giacimenti minerari. Non a caso il primo, vero, passo storico per l’integrazione europea fu l’istituzione di una comunità incentrata sulle questioni energetiche, la CECA. Dopo aver scatenato i due conflitti più sanguinosi della storia umana, francesi e tedeschi intuirono che far fruttare quelle stesse risorse tramite il libero scambio fosse un modo più efficace per prosperare, piuttosto che impegnarsi nella distruzione reciproca.
Proprio l’esempio franco-tedesco fece sì che per la prima volta nella storia moderna, una buona fetta di europei comprendessero quanto le loro vite sarebbero state migliori attraverso la collaborazione, il commercio e la libera circolazione, piuttosto che la contrapposizione nel tentativo di egemonizzarsi a vicenda. Francia e Germania non erano tuttavia solo un modello da seguire: erano le due economie più forti della nuova area economica europea, e per molti in Europa era pacifico che il progetto europeo sarebbe stato guidato da Parigi e Berlino. Non a caso le nuove “capitali” europee designate, furono rispettivamente Bruxelles a Strasburgo, città di confine tra area francese (e francofona) e area germanica, laddove il Benelux, incastonato tra le due grandi nazioni, veniva sempre più integrato nei circuiti del nuovo asse franco-tedesco.
Oggi, per la prima volta da quel lontano 1951, il processo d’integrazione europea non solo sembra essersi arenato, ma rischia seriamente di spezzarsi e, nella peggiore delle ipotesi, non rimarginarsi più. Se un tempo l’asse franco-tedesco ha sostanzialmente dato vita al progetto comunitario, oggi è proprio il suo protettivo quanto opprimente abbraccio che rischia di soffocarlo.
Ovviamente l’Unione Europea, ossessionata dall’illusione di poter governare un gigante da mezzo miliardo di abitanti con 28 Stati sovrani, contando principalmente sull’istituto dell’unanimità, si ostina a non vedere che il meccanismo si sta inceppando, in quanto il mantra sull’uguaglianza tra tutti gli Stati membri le impedisce di riconoscere come per tutto questo tempo sia stata governata soprattutto dall’asse franco-tedesco. Ma se ostinarsi a non guardare in faccia la realtà rischia di far crollare la Nazione apparentemente più solida (come veniva vista l’Urss nel periodo della Guerra Fredda), figurarsi quando abbiamo a che fare con una creatura, l’Ue, che è ben lontana dall’essere definibile “Stato”. In questi mesi si dice spesso “o si fa l’Europa o si muore”, senza sapere bene con quali materiali si stia costruendo quest’unione.
La realtà attuale europea ci dice come il Vecchio Continente sia, come da tradizione storica millenaria, dominato da più poli di potere. Se alcuni poli, Russia e Turchia in particolare, sono ancora al di fuori dell’Unione, tutti gli altri ormai fanno parte del progetto comunitario. Purtroppo, il loro status per una ragione o per l’altra non viene riconosciuto nella governance effettiva dell’Unione, a beneficio di Francia e Germania, molto più gelose di questo status di quanto sarebbero mai disposte ad ammettere.
Partiamo da occidente. La Spagna è da più di un secolo (dopo il definitivo decadimento del suo impero coloniale) considerata come regione periferica e poco importante rispetto al cosiddetto “cuore d’Europa”. Eppure la Spagna non solo è la Nazione cardine della penisola iberica, ma è anche il gateway occidentale dell’Europa, punto che con l’attuale flusso migratorio ha assunto una dimensione assai critica perlopiù ignorata da Bruxelles, a vantaggio dell’attuale flusso migratorio dai Balcani, nonostante la pressione migratoria sulle enclavi africane spagnole di Ceuta e Mellila sia destinata, a differenza della migrazione siro-irachena, ad essere endemica e non dovuta a particolari episodi internazionali.
Altro fattore ignorato dai policy-maker dell’Unione è che la Spagna costituisce il principale collegamento europeo con l’America Latina, vale a dire gran parte del continente americano, una regione in crescita e con mercati sempre più importanti, che una futura superpotenza su scala globale quale l’Unione Europea si picca di voler diventare non può non tenere in considerazione. Oggi Madrid è sola nella sua attuale crisi di governabilità, così come è stata sola negli ultimi anni, caratterizzati inoltre da forti spinte secessioniste al suo interno. L’Unione Europa ha mostratoagli spagnoli di essere più interessata alla loro tenuta economica rispetto a quella politica, preoccupandosi che gli effetti della crisi economica abbattutisi sul paese non portassero a situazioni simili a quelle della Grecia. Complici anche le aperte simpatie europeiste di buona parte dei movimenti indipendentisti, l’Unione fino ad ora non ha fatto nulla per garantire il proprio appoggio a Madrid rispetto alla sua integrità territoriale, anzi, la presa di posizione comunitaria a sostegno dell’autodeterminazione del Kosovo ha innescato un precedente che molti, in Spagna, temono.
Se la Spagna si ritrova fuori dalla stanza dei bottoni europea, un altro Paese dell’Unione subisce lo stesso destino per la ragione opposta. Se le trattative tra il governo britannico di Cameron e Bruxelles saranno state sufficienti a scongiurare l’uscita formale del Regno Unito il 23 Giugno non è ancora dato saperlo, di sicuro però questa consultazione è la consacrazione del fallimento comunitario d’integrare Londra in qualsivoglia processo che non sia prettamente di natura finanziaria, rendendo di fatto il Trattato di Lisbona carta straccia per il Regno Unito. Certo è ben noto che i britannici siano per tradizione scettici se non preoccupati dalla prospettiva di un’integrazione politica europea, e questo, di rimando, ha fatto sì che molti europei continentali ritenessero che in fondo l’Unione non solo potrebbe fare a meno di Londra, ma trarrebbe giovamento dall’assenza di un membro che rema volutamente contro. Proviamo però a guardare le cose da una prospettiva capovolta. L’ingresso del Regno Unito nell’Unione nel 1973 fu osteggiato dalla Francia, che temeva di dover condividere il suo ruolo di predominanza con il proprio vicino, elemento perdurato con l’asse franco-tedesco, ben contento di non dover trasformare la governance comunitaria in un triumvirato. Per un Paese come la Gran Bretagna, che da secoli ha come linea guida strategica impedire che dal continente europeo emerga una potenza egemone tale da travolgerla, il comportamento francese e tedesco rappresenta l’epitome di tutte le sue paranoie: sospetti che a dispetto delle lacrimevoli dichiarazioni francesi e tedesche sull’importanza del Regno Unito per l’Europa, fanno molto comodo tanto a Parigi quanto a Berlino.
Se Spagna e Regno Unito sono paesi che hanno aderito al progetto comunitario alcuni decenni dopo il suo inizio, e ciò ha in qualche modo contribuito a tenerli più ai margini rispetto all’asse franco-tedesco, esiste un paese fondatore che pur costituendo un polo di potere europeo sta conoscendo suo malgrado un destino simile.
Quando Altiero Spinelli scrisse nel 1941 il “Manifesto di Ventotene” – una delle prime dichiarazioni programmatiche per un’Europa finalmente unita e federale – sperava che l’Italia avrebbe finalmente potuto trovare una sua vocazione internazionale e diventare colonna portante del nuovo progetto europeo. Il nostro paese fu uno dei sei fondatori della CECA e della CEE, solo Paese al di fuori dall’area franco-tedesca-beneluxiana. L’Italia fu nei decenni successivi uno dei Paesi più europeisti del continente (basti guardare le percentuali di voto alle europee italiane rispetto agli altri paesi europei), con la convinzione che grazie all’Europa lo stivale avrebbe potuto finalmente ottenere il riscatto dal disastro del secondo conflitto mondiale, e quel prestigio internazionale che cercava disperatamente sin dalla sua formazione nel 1861. Con il nuovo millennio e l’introduzione dell’Euro, pur facendo parte prima del G7 e del G8, e con un’economia paragonabile a quella francese e britannica, la classe dirigente italiana iniziò a sentirsi sempre più inadeguata rispetto alle altri grandi potenze dell’Unione, soprattutto rispetto alla Germania. Molti a Roma speravano in un’Italia “tedesca”, e l’asse franco-tedesco non perse tempo ad approfittare delle insicurezze del Paese, tenendolo sempre più a margine delle decisioni europee, fino al giungere della crisi economica del 2007, che portò l’Italia sull’orlo del collasso finanziario, situazione che ci portò nel 2011, il governo tecnico di Monti, fortemente auspicato da Bruxelles.
Una mossa che salvò finanziariamente il Paese, ma che ruppe per sempre l’idillio dell’opinione pubblica italiana verso il progetto comunitario. Gli ultimi anni hanno visto un impressionante progressione delle posizioni contrarie all’Unione, sempre più vista come vero e proprio spauracchio a tutti i problemi del Paese, nonché come tentativo tedesco (e in misura minore francese), di dettare legge a Roma (non a caso il termine “asse franco-tedesco” è particolarmente noto e spesso usato in Italia). Persino l’attuale governo Renzi, forse l’ultima componente europeista di fronte a un opposizione che, aldilà delle reciproche differenze, condivide un forte scetticismo se non un’aperta ostilità verso Bruxelles, si è ultimamente mosso in maniera sempre più polemica verso le politiche europee e della Germania, nel tentativo di rassicurare un elettorato sempre più ostile a Bruxelles, prendendo le distanze da quel governo tecnico inquadrato come l’apice della massima debolezza italiana nei confronti dell’Unione.
La paura che l’Unione costituisca un paravento per rinnovati propositi egemonici ad opera soprattutto tedesca non è presente solo in una porzione crescente dell’opinione pubblica italiana. Quando nel 1993, pochi anni dopo il crollo del blocco sovietico, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria diedero vita ad un’alleanza nella cittadina di Visegrad, tra i punti programmatici c’era l’adesione al progetto comunitario. Tutti e quattro i paesi entrarono nell’Unione nel 2004 e di Visegrad, in Occidente, non si è mai sentito parlare fino all’autunno dello scorso anno.
Dopo che Merkel, a Settembre, diede l’annuncio che la Germania avrebbe accolto tutti i rifugiati siriani che avrebbero fatto domanda, l’Europa fu investita da un flusso migratorio colossale che continua tutt’ora, e che dalla Turchia procede per tutti i Balcani fino all’Europa Centrale. La cancelliera tedesca confidava nella possibilità di organizzare una ripartizione dei rifugiati tra i 28 paesi dell’Unione che avrebbe alleviato la pressione interna, ma si scontrò proprio con l’accanita opposizione dei 4 paesi di Visegrad, con un ruolo sempre più di leadership assunto dalla Polonia, consolidatasi dopo anni di costante crescita economica e guidata dal Maggio 2015 dal partito ultra-conservatore “Diritto e Giustizia”. A fomentare ulteriori tensioni tra Unione e Polonia si aggiungono alcune riforme operate dal governo polacco contestate dall’Unione, con l’accusa che condurrebbero il paese verso una direzione autoritaria. La tensione tra Varsavia e Bruxelles è tale che quest’ultima ha minacciato sanzioni economiche in caso di approvazione da parte del Sejm, il parlamento polacco.
Un’energia e una severità da parte comunitaria che a un numero crescente di polacchi appare sospetta, e che piuttosto che spronarli a battersi per il rispetto delle regole democratiche, li avvicina al governo di Varsavia con la convinzione che da parte dell’Unione, più che un interesse genuino verso la democrazia polacca, ci sia solo la contrarietà verso il governo eletto. Inoltre, la Polonia, che da tempo sollecitava senza alcun esito Bruxelles a prestare attenzione alle tensioni politiche in Ucraina e alle mire russe sulla regione, si sente sempre più sola a gestire la strategia verso i suoi confini orientali: al netto delle sanzioni inflitte dall’Unione alla Russia, poi, il matrimonio d’interesse tra Berlino e Mosca per le forniture energetiche non rende affatto tranquilla Varsavia.
La deriva polacca, testimoniata dalla scomparsa in Parlamento delle forze europeiste, è un preambolo di quanto potrebbe accadere negli altri grandi Paesi europei. Laddove le forze politiche critiche verso Bruxelles non sono realmente in grado di ambire al governo, come in Italia e Spagna, i partiti un tempo “amici” dell’Europa si stanno sempre più spostando verso posizioni critiche, o si astengono mantenendo un profilo ambiguo per timore di inimicarsi un’opinione pubblica locale sempre più ostile nei confronti di Bruxelles.
Se questi paesi verranno travolti dal populismo anti europeo, l’Unione Europea potrebbe ricevere la propria pietra tombale. Per scongiurare ciò, occorre che Parigi e Berlino superino la comodità nel breve periodo assicurata dal ritrovarsi alla guida della prima potenza economica mondiale (una guida che in ogni caso stanno già oggi perdendo progressivamente), e riconoscano che una governance comunitaria necessita dell’opera di concerto da parte di tutti gli altri grandi Stati membri dell’Unione.
Così come negli anni ’50 Francia e Germania riuscirono finalmente a mettere da parte il loro interesse contingente per dar vita a qualcosa di molto più grande e duraturo, oggi Parigi e Berlino sono chiamate a fare il medesimo passo, ma su scala più ampia, consentendo perlomeno a Spagna, Regno Unito, Italia e Polonia di entrare nella sala di comando comunitaria, e provare seriamente a vedere se questo esperimento politico inedito nella storia sia in grado di funzionare per davvero.