L’esito delle elezioni iraniane ha portato in Occidente un cauto ottimismo sulla questione iraniana. Le elezioni sono state vinte da candidati appoggiati dai moderati e dai riformisti che non hanno passato il filtro del regime. Un fatto positivo, ma gli entusiasmi vanno messi nell’ottica giusta.
Non è tutto oro ciò che luccica. Un detto che sembrerebbe fare il caso dei risultati delle elezioni tenutesi in Iran il 26 febbraio per il rinnovo del Parlamento (Majlis) e dell’Assemblea degli Esperti, chiamata a eleggere la nuova Guida Suprema dopo Ayatollah Ali Khamenei (in carica). Indubbiamente, gli equilibri interni sono già cambiati: la vittoria dei moderati del presidente Hassan Rohani e dell’ex capo di Stato Hashemi Rafsanjani ha interrotto la lunga egemonia degli ultra-conservatori “principalisti” vicini a Khamenei.
All’Assemblea degli Esperti i moderati di Rafsanjani hanno ottenuto 13 seggi su 16 nella sola Teheran oltre alla maggioranza sugli 88 disponibili. Anche in Parlamento hanno registrato una vittoria schiacciante, sebbene per avere risultati definitivi occorrerà attendere l’esito dei ballottaggi previsti per la fine Aprile, dato che in alcuni collegi (per un totale di 59 seggi) nessuno ha raggiunto la quota minima del 25% dei voti. Entrano in Parlamento 15 donne, su un totale di 290 seggi, un dato che merita di essere riportato.
Secondo il Ministro degli Interni, Abdolreza Rahmani Fazli, oltre il 60% degli aventi diritto al voto si è recato alle urne. Queste elezioni sono le prime dopo l’accordo sul nucleare e la fine delle sanzioni: il governo di Rouhani e il suo progetto di far uscire l’Iran dall’isolamento ne escono sicuramente rafforzati.
Se il rinnovato protagonismo sulla scena economica internazionale sta a significare anche una maggiore apertura ai mercati è difficile che in politica estera le cose cambieranno in fretta. Una deriva “moderata” farà sì che il Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica – IRGC, noto anche come Pasdaran, la più potente organizzazione militare responsabile della protezione del regime iraniano e da alcuni anni di quello di Assad in Siria – continuerà a lavorare per puntellare il ruolo di potenza regionale dell’Iran.
Ci sono riformisti che si rammaricano per gli ingenti sforzi profusi per salvare il regime di Assad, ma che comunque non metteranno in discussione il proprio storico supporto alla Siria alawita-sciita. Bisogna rilevare anche che i Pasdaran sono tuttora inseriti nella lista dei finanziatori di gruppi terroristici.
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Dal punto di vista della politica interna, però, le conseguenze di queste elezioni potrebbero portare a una svolta: un’Assemblea degli Esperti non più in mano ai conservatori apre nuovi scenari sull’elezione della Guida Suprema, ossia la massima autorità militare e giudiziaria del Paese, che detiene poteri pressoché illimitati. Per fare un esempio, sia i parlamentari che le leggi approvate dal Parlamento devono ricevere l’approvazione dal Consiglio dei Guardiani, composto da 12 membri, tra cui 6 religiosi nominati direttamente dalla Guida Suprema e 6 giuristi islamici nominati dal capo del potere giudiziario in Iran (attualmente Sadeq Larijani), a suo volta nominato dalla Guida Suprema.
Dal punto di vista militare, l’IRGC risponde direttamente alla Guida Suprema che, in sostanza, ha il totale controllo, più o meno diretto, su ogni potere del Paese. L’attuale ayatollah Khamenei è il successore della linea dura introdotta dal fondatore della Repubblica Islamica, l’ayatollah Khomeini, quella ostile all’Occidente in politica estera e repressiva in politica interna. Una Guida Suprema “moderata” potrebbe avere effetti positivi, anche se sarebbe ingenuo pensare che stravolgimenti strutturali siano dietro l’angolo.
Innanzitutto, è davvero una svolta moderata? Dietro i termini riformisti e moderati si nascondono alcuni nomi che governano da anni con ben poche tendenze moderate, almeno nel senso convenzionale del termine. A cominciare da Rouhani, che dal giugno 2013 (quando divenne Presidente) detiene il record per numero di impiccagioni ordinate negli ultimi 25 anni (1,084 esecuzioni solo nel 2015, secondo stime ONU). Sotto la sua guida continua la repressione e la tortura di migliaia di oppositori, oltre alla persecuzione degli omosessuali e dei cristiani, questi ultimi arrestati con l’accusa di “diffusione del cristianesimo”, nonché l’arresto delle donne se vanno allo stadio. In generale, la situazione dei diritti umani resta grave e la repressione, il carcere e le frustate non colpiscono solo oppositori politici, ma anche intellettuali, artisti, registi, attivisti ed esponenti della società civile.
Il confine tra riformisti, moderati e conservatori (detti “principalisti”) appare molto labile, anche alla luce del fatto che, come già detto, i deputati prima di essere eleggibili vengono selezionati dal Consiglio dei Guardiani, di conseguenza alle elezioni arrivano solo quelli apparentemente più favorevoli al regime. Inoltre non esistono partiti politici ma “correnti” non molto strutturate. Quasi la metà dei candidati originali per queste elezioni è stata esclusa in partenza dal Consiglio: solo 6,300 dei 12,123 iniziali sono stati accettati per concorrere alle elezioni. A questo punto i riformisti hanno deciso di indicare comunque tra gli eleggibili selezionati quelli su cui far convogliare i voti. Tra gli esclusi, curiosità, figura anche Hassan Khomeini, nipote dell’Ayatollah Khomeini.
La legge iraniana non vieta ai candidati di presentarsi in più liste contemporaneamente ed è accaduto che nelle liste dei moderati spiccassero nomi di noti conservatori “principalisti”. È il caso di Ghorbanali Dorri-Najafabadi (ex Ministro dell’Intelligence) e Mohammad Reyshari (anch’egli ex Ministro dell’Intelligence e giudice dei Tribunali Rivoluzionari). Entrambi sono politicamente responsabili delle migliaia di uccisioni di oppositori che hanno insanguinato l’Iran negli anni ’80 e della repressione dell’Onda Verde del 2009, movimento di protesta pacifico che denunciava i brogli elettorali che riconfermarono Ahmadinejad. I leader del movimento, Mousavi e Karroubi, finirono agli arresti domiciliari, dove sono tutt’oggi. Simbolo di quelle proteste divenne Neda Agha Soltan, studentessa 26enne uccisa dalle forze di polizia iraniane durante una manifestazione pacifica; il video che ne immortala gli ultimi istanti di vita fece il giro del mondo.
È anche il caso di Kazem Jalali, già Parlamentare, che si battè per l’esecuzione degli stessi Mousavi e Karroubi, ma anche di Mohammad Movahedi Kermani, che una settimana dopo la firma dell’accordo sul nucleare disse durante un sermone: “calpesteremo l’America”. D’altra parte il primo candidato più votato singolarmente è stato il “pragmatico moderato” Akbar Hashemi Rafsanjani, alleato di Rohani e importante autorità politica in Iran (nel 2013 gli era stato proibito di correre come Presidente).
I segnali sono quindi contrastanti: oltre la superficie delle etichette di moderazione e riformismo si nasconde un cambiamento forse più confuso e agognato che reale. Queste elezioni risultano molto significative, ma sono pur sempre l’espressione di una realtà teocratica e non democratica, dove la società civile – specialmente della capitale – cerca di emergere.
Per chi volesse approfondire la complessa situazione della politica iraniana consigliamo questo articolo della rivista The Atlantic.
di Samantha Falciatori